GIACOMO LEOPARDI
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
(pagg. 2300 - 2699)
[2300]del tutto popolare nella Grecia e
nel Lazio, anzi popolare per sua natura, in qualunque popolo, e propriamente
una di quelle voci e idee che non essendo adoperate mai dagli scrittori se non
per ischerzo, o per filosofica riprensione, sono nondimeno tutto giorno in uso
nella comune favella, e in questa sordamente si conservano e si perpetuano,
come fanno i pregiudizi e le sciocchissime opinioni, e i più puerili errori
della più minuta plebaglia, e delle ultime femminucce; pregiudizi ec. de’ quali
in particolare non s’ha notizia fuori di quella tal nazione perchè
difficilmente vengono in taglio d’esser mentovati nella scrittura, o nella
società, per poco civile che sia. E massimamente se ne perde la notizia, s’essi
sono antichi (come appunto delle voci oscene delle quali avranno abbondato le
lingue antiche, ne abbondano le moderne, nè però si conoscono da’ forestieri.). [2301]Frattanto essi si conservano tradizionalmente di padre in figlio,
e si perpetuano più che qualunque altra cosa volgare, e con essi le parole che
loro appartengono specificatamente. Di tal natura è l’antichissima e
volgarissima voce Lamia, lamÛa, e l’idea ch’essa significa. V. il
Forcell. i Diz. Greci, il Glossar. e il mio Saggio sugli errori popolari degli
antichi.
Or
questa voce passò in realtà nel volgare italiano, e vi passò non per mezzo
degli scrittori, ma per mezzo del volgare latino il che si dimostra in due
modi.
1. Quei pochissimi scrittori latini che usarono
questa voce, non poterono esser noti più che tanto a quegl’ignorantissimi che
nel 300 adoperarono scrivendo in italiano la voce Lammia. Si vede chiaro
ch’ella era in quel secolo volgare in Italia, poichè si trova in iscrittori di
questa natura: laddove oggi ella non si trova che negli scritti dei dotti,
perchè il volgo [2302]ha finalmente cessato di adoperarla e di
conoscerla, avendo non perduto, nè cambiato affatto quella stolta idea che
quella parola significava, ma pur tanto cambiatala, ch’ella si esprime ora con
altre parole.
2. Gli scrittori latini adoperarono Lamia
in senso di strega, o fata ec. e negli scrittori del trecento
ella si trova, credo sempre, in senso di ninfa, tanto che i volgarizzatori di
quel tempo, dove i testi latini dicono nympha, traducono regolarmente Lammia.
Questa voce non la poterono dunque avere dagli scrittori latini, che l’adoprano
in altro senso, ma dal volgare, il quale, come il volgo fu divenuto cristiano,
e considerò le ninfe, e le altre deità del paganesimo come demonj, e
mali spiriti, cominciò e costumossi a chiamar Lammie le ninfe de’
Gentili. (Del che molti analoghi esempi cristiani si potrebbero addurre.).
Ovvero intendendo per Lammie le fate delle quali a que’ tempi si
discorreva, e la cui idea somiglia a quella delle streghe ec. e le fate essendo
una specie di ninfe, e viceversa, prevalse questo costume di confonder le ninfe [2303]colle Lammie, tutte cose che dimostrano un uso volgare, e
una perpetua conservazione della voce Lamia e dell’idea che significava,
o di un’idea analoga alla medesima, nel volgare latino fino ai primordi dell’italiano;
altrimenti come sarebbero andati quegl’ignorantissimi trecentisti a pescare
questa voce e quest’idea ne’ pochissimi (e allora in gran parte ignoti, e tutti
malnoti) scrittori latini che l’adoperarono, per poi scambiarla nel volgare
italiano con quello che gli scrittori latini chiamavano ninfa?
Massimamente se considerate ciò che ho detto di sopra, che questa antica voce Lamia,
e questa idea, o altra a lei analoga (com’è naturale che il tempo cambi pur
qualche cosa nelle opinioni del volgo, come nella favella, specialmente essendo
mutata la Religione), dovea per sua natura conservarsi sordamente e
tradizionalmente, ma lunghissimamente nella bocca e nella testa dell’infima
plebe (la quale ora finalmente l’ha perduta; e questa voce non è che dei dotti
nel senso di strega, de’ pedanti [2304]nel senso di ninfa.) E chi sa che
gli stessi antichi latini (e greci) volgarmente non dicessero Lamia per
ninfa? Considerando cioè la ninfa come un ente misterioso, e di misterioso
potere, qual è appunto la Lamia. Facilissime e naturalissime sono queste
confusioni d’idee e di parole, in quelle tra esse che appartengono alla classe
abbandonata ai pregiudizi dell’infimo volgo. V. il Forcell. in che senso si
prendesse la voce nympha. V. pure il Monti, Proposta, voce Lammia.
Io per me credo probabilissima e naturalissima quest’ultima opinione, la quale
parimente dimostrerebbe come Lammia derivasse nell’antico italiano (e
questo, volgare) dal solo volgare latino. (29. Dic. 1821.). A questo proposito
osserva ancora intorno alla nostra voce Fata, ed all’idea ch’essa
significa, il Forcell. in Fata ae, e una mia nota al Frontone de Nep.
amisso. Troverai che la voce e l’idea prende origine dall’antico latino, e dev’esser
passata a noi per mezzo del volgare, essendo essa voce pochissimo o niente
usata dagli scrittori latini ec. V. pure il Forcell. Fatum in fine, e
sotto il principio, dove cita Apuleio. V. p.2392.
I
diminutivi sogliono esser sempre graziosi, e recar grazia e leggiadria ed
eleganza al discorso, alla frase ec. Riferite quest’osservazione alla grazia
che nasce dalla piccolezza.
[2305]Gl’italiani, i francesi gli
spagnoli usano il verbo sapio (sapere, saber, savoir) nel senso
di scio. Che vuol dir ciò, se non che così adoperava quel volgare da cui
e non d’altronde, tutte tre queste lingue son derivate? Vedi il Forc. e il
Glossar. e Sapiens, Sapientia ec.
(29.
Dic. 1821.)
Ho detto
altrove che gli antichi (e ciò per natura) consideravano il forestiero come
naturalmente ed essenzialmente diverso dal paesano, e come ente d’altra natura.
Quindi è ch’essi si difendevano da’ forestieri o gli assaltavano, come facevano
colle bestie, cogli animali o colle cose d’altra specie, se non quanto ponevano
maggior gloria nel vincer gli uomini, come vittoria più difficile. Ma la guerra
nell’antica e primitiva idea non differiva o punto o quasi punto dalla caccia,
(come non differisce presso i selvaggi). Quindi non quartiere, non pietà, non
magnanimità (che allora non si credeva aver luogo col nemico), non perdono col
vinto; quindi [2306]ostinazione, risolutezza di non cedere, (e come
avrebbero voluto sottostare al governo di animali, di fiere ec.? come dunque a
quello di uomini creduti d’altra specie?) disperazione di esser vinto,
schiavitù, depredamenti, incendi, distruzioni degli alberghi e dei paesi, delle
sostanze e delle persone dei vinti; quindi tutti gli altri effetti dell’antico
odio nazionale, che altrove ho specificati, e che sono parimente moderni nei
selvaggi, barbari ec.
(29.
Dic. 1821.)
Alla
p.1283. principio. Io sospetto di aver trovato effettivamente questa radice hil nell’antichissimo latino. Osservate. Nihilum, è quasi ne hilum,
dice il Forc. e seco gli etimologi. V. anche il Forcell. in Per hilum. E
non v’è questione perocchè Lucrezio dice neque hilo ec. rompendo il
composto, in vece di nihiloque, come solevano gli antichi latini,
massime i poeti, (come Plauto disque trahere per et distrahere) e
questi anche a’ buoni secoli: e così i greci. Nè solo Lucrezio ma altri che v.
nel [2307]Forc. in Hilum. Della particella privativa ne (cambiata
nella composizione in ni) vedi il Forcell. in ne, e in nego.
Potrebbe anche essere un nec, come necopinans ec. significa non
opinante ec. e il nec non è che particella privativa come l’Ž dei greci. V. anche lo Scapula in n¯, particella parimente privativa
nell’antichissimo greco, del che v. pure Helladii Besantinoi Chrestomathia,
colle note del Meursio.
(Nel
qual proposito osservo di passaggio. La n è radicale e caratteristica
della negativa in latino, e così pure per conseguenza in italiano. Quindi non,
ne, nec, neque, (v. il Forcell.) nihil, nil, nemo, nullus cioè non
ullus, come pure si dice, nego, nefas, nequam, nepus cioè non
purus, nolo, nequeo, nequicquam, nedum, nequaquam ec. de’ quali v. il
Forcell. ed osserva la forza e l’uso della particella ne in
composizione. Non così nel linguaggio greco dei buoni secoli. Giacchè oé, oéx, oék, m¯, Ž ec. non hanno n. [2308]Eppure
nell’antichissimo greco è chiaro per le sullodate testimonianze, e per l’uso di
Omero ec. che la n avea forza di negazione, privazione, ec. Ecco un’altra
prova e della fraternità antichissima delle dette due lingue, e dell’esser
forse qualche cosa passata piuttosto dal latino nel greco, che viceversa; o
certo dell’avere la lingua latina conservate assai più della greca le sue
antichissime ed originarie proprietà. E notate che trattandosi della
caratteristica negativa, si tratta di cosa primitiva affatto, e di primissima
necessità in qualunque lingua.)
Nihilum pertanto è ne hilum, come nemo,
ne homo, e v. il luogo di Varrone nel Forcell. in Nequam.
Che cosa
significasse questo hilum, antichissima voce latina, non sanno
affermarlo i gramatici. Putant esse, dice Festo, quod [2309]grano
fabae adhaeret. Dunque egli non sa propriamente che significhi, nè si
sapeva al suo tempo. Ed è cosa ben naturale quando tante parole di Dante e d’altri
trecentisti o duecentisti (meno lontani da noi, che le origini della lingua
latina da Festo) sono o di oscurissima e incertissima, o di perduta
significazione.
Io credo
che esso non significhi altro che materia, o cosa esistente (che
per li primitivi uomini non poteva essere immaginata se non dentro la materia,
ed estendi questo pensiero.). E penso che sia nè più nè meno l’ìlh dei greci, ossia quell’antichissimo hilh o hulh che abbiamo
detto.
Vogliono
che nihil, sia troncamento di nihilum. Al contrario a me pare che
nihilum sia parola così ridotta da nihil, perchè divenisse capace
di declinazione. Che troncamento barbaro sarebbe stato questo, e quanto
contrario al costume latino, se da nihilum primitivo, avessero fatto nihil!
e non piuttosto viceversa, [2310]che è naturalissimo. Addolcendosi la
favella (massime quelle del gusto meridionale, del gusto della latina) non si
troncano, anzi si aggiungono appunto allora le terminazioni, e si proccura
inoltre di render declinabili, cioè modificabili secondo le diverse occorrenze
del discorso, le voci che già esistono; e non per lo contrario. Indubitatamente
per tanto non nihil da nihilum, ma questo viene da quello. Si
dice parimente nil contrazione di nihil, (fatto più volte
monosillabo da Lucrezio) ma nilum per nil si trova in Lucrezio
appena una volta, e chi sa s’è vero, e che non sia errore in vece di nihilum dissillabo. In ogni modo è costante presso il più sciocco etimologo che le
terminazioni non vanno calcolate, ed è chiaro che le sole radicali di nihilum,
i, o, ec. sono nihil; di hilum, hil. E di questo
secondo, la cosa è tanto più manifesta, quanto che abbiamo appunto da esso, nihil,
e nil, senza la terminazione declinabile.
Eccoci
dunque con questo hil nudo e manifesto nelle mani, e se attenderete alle
[2311]cose dette di sopra, e se avrete niente di spirito filosofico,
vedrete quanto sia naturale e probabile che siccome ne homo cioè nemo,
vuol dire nessuna persona, così ne hil cioè nihil volesse
dire primitivamente nessuna materia, cioè nessuna cosa (v.
p.2309. mezzo, e i miei vari pensieri sulla necessaria e somma materialità di
tutte le primitive lingue, e di tutte le primitive idee umane, anzi non pur
delle primitive, ma di tutte le idee madri ed elementari); ovvero non
materia, non cosa, cioè, insomma, e formalmente ed espressamente, nulla.
(Così i greci oéd¢n neque unum ec. non
quidquam mhd¢n, oëti, m®ti ec.)
Non vi
par ella naturalissima questa etimologia? Non vi par dunque probabilissimo che
l’antico e quasi ignoto hilum volesse dir materia, e fosse tutt’una
radice con ìlh e silva adoprata pur essa in senso di materia?
Non è chiaro che l’um in hilum non è radicale, ma declinabile ec.
e per conseguenza la radice è solamente hil, massime che da hilum
abbiamo nihil e nil, parole inverisimili, [2312]e strane e
mostruose se fossero un’apocope ec.? Non abbiamo dunque probabilmente trovato
in realtà nell’antichissimo latino la semplicissima radice di silva? di ìlh, ec.?
Osservate
che in questo caso si renderebbe verisimile che il primitivo e proprio senso di ìlh silva ec. fra quelli ch’essi realmente hanno,
fosse quello di materia.
Non so
se possa fare al caso l’osservare che noi diciamo filo per nulla,
il che potrebbe derivare non da filum da hilum, mutato l’h
in f, come viceversa gli spagnuoli, onde appunto per filum dicono
hilo. E ricordati di quanto ho detto circa l’antica proprietà della f,
cioè di essere aspirazione. Del resto v. la Crusca, il Glossar. i Diz. franc. e
spagn. ec. e il Forc. in filum, se avesse nulla.
I greci
conoscevano la letteratura latina appresso a poco come i francesi conoscono
oggidì le letterature straniere (specialmente l’italiana), e com’essi le hanno
conosciute da poi che la lingua letteratura e costumi loro sono stati [2313]pienamente
formati. Eccetto quella differenza che è prodotta dalla diversità de’ tempi e
del commercio fra le nazioni, per cui la Francia conosce certo più le
letterature forestiere, di quel che la Grecia conoscesse la latina. Ma parlo
proporzionatamente. E non è questa la sola somiglianza (estrinseca però) che
passa fra lo spirito, il costume, la letteratura francese, e la greca.
Il
grande intreccio in un’azione drammatica, la complicazione dei nodi ec.
distoglie affatto l’animo dell’uditore o lettore dalla considerazione della
naturalezza, verità, forza della imitazione, del dialogo, delle passioni ec. e
di tutte quelle bellezze di dettaglio nelle quali principalmente consiste il
pregio d’ogni genere di poesia. Anzi per l’ordinario dispensa l’autore da
queste bellezze, lo dispensa dall’osservanza, e dall’efficace e viva ¤ktæpvsiw dei caratteri ec. In questo modo l’unico [2314]o certo il
principale effetto ed affetto ed interesse che i drammi di grande intreccio
producono, si è la curiosità; e questa sola spinge l’uditore a interessarsi e
fare attenzione a ciò che si rappresenta, questa sola trova pascolo, e questa
sola è soddisfatta nello scioglimento. Nessun’altra passione o interesse è
prodotta in lui da tali drammi, per caldi e passionati che l’autore abbia
inteso di farli. Or questo è del tutto alieno dall’essenza della drammatica:
esso appartiene all’essenza del racconto: la drammatica essendo una
rappresentazion viva e quasi vera delle cose umane, deve destar ben altro
interesse che quello della curiosità, come può fare la storia: in questo caso,
l’azione drammatica viene ad esser come quella di una novella, il dramma
produce lo stesso effetto di una novella, ed è indifferente per l’uditore o
lettore che quell’azione accada sotto gli occhi suoi, o gli venga fatta sapere
per mezzo di parlate, ovvero che se gli racconti semplicemente il caso come in
un romanzo, o in una storia curiosa e complicata. [2315]Quindi la
necessità e il pregio degl’intrecci semplici in ogni genere di drammi, ma
proporzionatamente più in quelli dove l’interesse della passione, e la
commozione dell’uditore dev’esser più viva, come nella tragedia: a cui la
semplicità dell’azione è più necessaria che alla commedia. A questa poi ancora
è proporzionatamente necessaria per il pieno sviluppo, e la perfetta pittura
dei caratteri, e lo spicco dei medesimi, i quali si perdono affatto (per vivi e
ben imitati che sieno) quando la curiosità dell’intreccio assorbe tutto l’interesse
e l’attenzione dell’uditore. In somma l’uditore non deve tanto interessarsi del
successo, e anelare allo scioglimento del nodo, ch’egli perda l’interesse e la
commozione ec. successiva, e continua, ed applicata individualmente a ciascuna
parte del dramma, e a tutto il processo dell’azione ugualmente.
(31.
Dic. 1821.). V. p.2326.
L’animo
umano è sempre ingannato nelle sue speranze, e sempre ingannabile: sempre
deluso dalla speranza medesima, e sempre capace [2316]di esserlo: aperto
non solo, ma posseduto dalla speranza nell’atto stesso dell’ultima
disperazione, nell’atto stesso del suicidio. La speranza è come l’amor proprio,
dal quale immediatamente deriva. L’uno e l’altra non possono, per essenza e
natura dell’animale, abbandonarlo mai finch’egli vive, cioè sente la sua
esistenza.
(31.
Dic. 1821.)
Circa
quello che ho detto altrove del vir frugi de’ latini, che significava uomo
di garbo, e propriamente non voleva dir altro che utile, vedi il
Forcellini in Nequam, che significa cattivo, e propriamente non vale che
inutile. Così in Nequitia ec.
(31.
Dic. 1821.)
Alla
p.2250. marg. Nihil, vehemens ec. sono adoperati più volte da’ poeti,
quello come monosillabo, questo come dissillabo ec. V. il Forcellini. Così Nihilum
dove appunto devi vedere il Forcell. in fine della voce. E quel fare di nihil
nil, di vehemens vemens (v. il Forc. Vehemens fine), di prehendo
prendo ec. cose usitate nelle buone scritture latine anche in prosa, che
altro significa se [2317]non che quelle vocali successive, benchè
secondo le regole della prosodia si considerassero per altrettante sillabe,
nondimeno nella pronunzia quotidiana equivalevano o sempre o bene spesso a una
sola? Altrimenti queste tali contrazioni sarebbero state sconvenientissime: e
come poi sarebbero elle venute in uso generale, anche presso chi non ne aveva
bisogno (quali erano i prosatori), come nil detto indifferentemente per nihil?
Ed osservate che qui v’è anche di mezzo l’aspirazione ch’è quasi una
consonante, ed oggi la pronunziano per tale. E nondimeno le dette vocali si
tenevano per componenti una sola sillaba, e così si pronunziavano. (Come
appunto ne’ nostri antichi poeti, anche, se non erro, nel Petrarca, noja,
gioia ec. monosillabi, Pistoia dissillabo ec. e così mostra che si
pronunziassero.) Mihi parimente si contraeva nelle scritture, e massime
ne’ poeti, in mi. E non è apocope, come dice il Forcell. ma contrazione,
come nil ec. Che dirò di eburnus per eburneus e di tante
altre simili contrazioni di più vocali; mediante le quali contrazioni [2318](autorizzate
dall’uso) il considerar quelle vocali come formanti una sola sillaba diveniva
alla fine affatto regolare (in ogni genere di scrittori) e conforme alle stesse
regole della prosodia? Non dimostra ciò quello ch’io dico? Queis monosillabo, o così scritto o contratto in quis, non è posto fra i
dittonghi latini. V. il Forcell. e la Regia Parn. Lascio stare i nomi greci,
dove quelli che in greco sono dittonghi, a talento del poeta latino ora
diventano dissillabi ec. ora monosillabi come Theseus, Orphea, Orphei dativo, ec. Nè solo i nomi, ma ogni sorta di parole. L’i terminativo dei
nominat. plur. 2. declinazione ch’è sempre lungo dovette esser da prima un
dittongo, come l’oi greco nei corrispondenti nominativi plurali della 3za.
Lascio
ancora che l’ablativo della prima declinazione singolare, da principio, e forse
sempre a’ buoni tempi, si pronunziò (cred’io, e v. i gramatici) coll’a
doppia, (musaa, o musâ) e pur fu sempre considerata quell’a come
monosillaba. E che si pronunziasse coll’a doppia me ne fa fede il veder
che se ciò non fosse, molte volte ne’ poeti si troverebbe una brutta cacofonia
e consonanza, quando tali ablativi concorrono con altre parole terminate in a,
ch’è frequentissimo. Lascio l’antica scrittura di heic per hic, sapienteis,
sermoneis ec. ec. dove l’ei fu pur [2319]sempre avuto per
monosillabo. Lascierò ancora che tutte o quasi tutte le contrazioni usitate in
latino, o per licenza o per regola, dimostrano il costume di pronunziar più
vocali in una sola sillaba. P. es. Deum, virum per deorum, virorum,
venne dal costume di elidere la r, onde deoum, viroum,
dissillabi, e quindi deum, virum, genitivi contratti, forma usitatissima
specialmente presso gli antichi, più conformi al volgare. V. p.2359. fine.
Ma il
vedere che i latini poeti per costumanza regolare, tanto che il contrario
sarebbe stato irregolare (come in quel di Virgilio foemineo ululatu)
elidevano costantemente l’ultime vocali delle parole seguite da altre parole
comincianti per vocale, e ciò anche da un verso all’altro spesse volte (come in
Orazio animumque moresqUE Aureos educit in astra, nigroqUE Invidet Orco
ec. e in Virg. Georg. 2.69. Inseritur vero et foetu nucis arbutus horridA:
Et steriles platani ec. ec.); e non solo le vocali, ma anche le sillabe am,
em, im, um; e sì le vocali che queste sillabe le elidevano anche seguendo
una parola cominciante per vocale aspirata (come Virg. Georg. 3.9. TollerE
Humo: v. p.2316-17.); e non solo elidevano una vocale, ma anche più d’una
ec. tutto ciò non dimostra evidentemente che l’indole della pronunzia latina
formava in fatti una sola sillaba delle vocali concorrenti? Giacchè questo solo
vuol dire eliderle: non già ch’esse [2320]nella pronunzia si
tacessero (ciò forse avveniva alla sola m in simili casi); altrimenti
non le avrebbero scritte, ma posto in luogo loro l’apostrofo, come facevano i
greci quando le elidevano in verso o in prosa, che quando non ponevano l’apostrofo
in luogo loro, non le elidevano mai; e come gli stessi latini ponevano l’apostrofo
in luogo di quelle vocali o consonanti che non s’avevano effettivamente da
pronunziare, come ain’, Sisyphu’, confectu’ ec. o non ponendo l’apostrofo,
tralasciavano di scrivere quelle lettere che non s’avevano da pronunziare, come
appunto la s in ain’ per ais ne, ec. ec.
Altra
prova e dell’usanza latina di pronunziar più vocali in modo di una sola
sillaba, e dell’essere stato originariamente il v latino una semplice
aspirazione, e questa essere stata leggera (come l’h), e della
dissillabìa della 1. e 3. persona sing. perfetta indicativa delle congiugazioni
1. e 4. ec. ch’è appunto quello che s’ha a dimostrare, e della somiglianza tra
l’antichissimo latino conservatosi nel volgare, e le moderne figlie del latino;
eccola. Amaverunt, amaverat ec. si diceva spessissimo [2321]amarunt,
amarat ec. Donde venne questa contrazione usualissima? Le contrazioni non
nascono già, e molto meno diventano comunissime (più spesso troverete amarunt
che amaverunt ec.) senza una ragione di pronunzia. Anticamente si disse amaerunt,
amaerat trisillabe, senza però che l’ae si pronunziasse e, ma
sciolto. Poi coll’aspirazione eufonica, per fuggire l’iato si disse ec. Indi amaƒerunt. Ma il
volgo continuò a considerarli come trissillabi; e perciò saltando facilmente
una lettera, e conservando la parola trisillaba, disse amarunt, amarat ec. E non fece caso dell’aspirazione (ossia del v) non più di quello che
in nil per nihil ec. V. disopra. Che il volgo solesse pronunziare
così contratto piuttosto che sciolto lo dimostra il nostro amarono, amaron,
aimèrent. (E quanto ad amarat vedi la p.2221. fine-segg.) Quest’uso
essendo comune a tutte tre le lingue figlie, dimostra un’origine comune cioè il
volgare latino. E viceversa le dette considerazioni provano che detto uso
moderno, è di antichissima origine, e proprio (forse esclusivamente dell’altro)
del volgare latino, com’era pur [2322]proprio della scrittura, e lo fu,
sino ab antico, per sempre.
Gli
stessi motivi mi fanno credere che p. es. trovando noi nelle tre lingue figlie amammo,
amamos, aimâmes, si debba concludere che il volgo latino diceva parimente amamus
contratto per amavimus, come abbiamo veduto ch’egli diceva amai
(che gli spagn. e i franc. dicono aimai, emè mutato l’ai in e);
e come pur diceva amasti, amastis per amavisti ec. (del che
discorrete come sopra), onde amasti amaste, amaste amastes, aimas aimâtes
(anticamente aimastes.).
Gli
antichi non solo celebravano i giorni natalizi, ma anche gli anniversarii delle
morti. V. il quinto dell’Eneide, e segnatamente vers.46-54. Celebravano pure
gli anniversarii di vittorie riportate ec. come di quella d’Azio, per cui s’istituirono
i giuochi Aziaci. V. Heyne P. Virg. Maron. Vita per annos digesta, anno U.
C.723. Così in Atene la festa di Pallade nell’anniversario (se non erro)
della battaglia di Maratona o di Salamina. Celebravano annualmente in diversi
tempi, diverse [2323]regolari festività in onore di questo o quel Dio,
aggiunteci bene spesso delle ricordanze di cose patrie. ec. Le Cereali ec. in
Atene. I Lupercali a Roma. ec. Le feste secolari in onore di Apollo e Diana (v.
Carmina saecularia di Orazio.). Le feste in onore di Bacco ec. ec.
Alla
p.2019. marg. fine. Il quale exdorsuare (antico verbo) mi pare indizio
di un perduto dorsus us in vece di dorsus i, o dorsum i,
dal quale si sarebbe fatto non exdorsuare ma exdorsare, come
infatti abbiamo noi sdossare (ch’è lo stesso: v. p.2236. segg. 2297.
segg. giacchè dosso è lo stesso che dorso, ed è maniera italiana,
francese ec. di pronunziar questa parola, ma derivata da antichissima origine,
perchè gli antichi latini dicevano infatti dossum i, cambiando al solito
la r in s. V. il Forcell. in Dossuarius.), indossare,
addossare ec. V. il Gloss. il Forcell. i Diz. franc. e spagn. in queste e
simili voci. in detto antico dorsus us è anche dimostrato, al parer mio,
dai [2324]derivati dorsualis (da dorsum o dossum
verrebbe dorsalis o dossali. Vedilo infatti con altre simili voci
nel Gloss.), dossuarius, dorsuosus. Dorsuosus è da dorsus us come
luctuosus da luctus us, fructuosus da fructus us,
flexuosus da flexus us, sinuosus da sinus us, aestuosus
da aestus us ec. ec., actuosus da actus us ec., portuosus
da portus us ec., tortuosus da tortus us ec. (V. il
Forcell. in monstruosus che forse viene esso stesso da un monstrus us.)
adfectuosus da adfectus us ec. Ossuosus par che venga da os,
o da ossum i, e pure a’ bassi tempi, o volgarmente si disse ossuum,
ossua. V. Forcell. e Gloss. impetuosus, tumultuosus, sumptuosus, untuoso.
V. la p.2226. e 2386.
(2. Gen.
1822.)
Assalire, ital. assaillir franc. assaitar
spagn. (semplice continuativo di assalire, e derivato dal suo
particicipio al modo di cento mila altri verbi; del resto, proprio anche dell’italiano),
non dimostrano essi un’origine comune cioè un assalire latino, che non
trovandosi negli scrittori, non può essere stato che volgare? V. il Forcell. e
il Glossar. se hanno nulla. Nello spurgo di voci senza buona autorità, il
Forcell. porta infatti Adsalio, adorior, aggredior. Adsalitura, et
Adsaltura, aggressio.
(2. Gen.
1822.)
Alla
p.1121. fine. Il verbo periclitari che cosa crediamo noi che sia con
quella sua desinenza in tari? Null’altro che un continuativo o
frequentativo di un periculari, part. periculatus contratto in periclatus,
(come periculum spessissimo in periclum, e qui con più ragione
per non dire [2325]duramente periculitari) donde periclitari nè più nè meno come da minatus di minari, minitari. Che è? questo periculor è un sogno? 1. Perchè dunque da periculum o periclum s’ha da far di prima mano periclitor, e non periclor o periculor,
secondo tutte le regole? 2. Eccovi periculor presso Festo in Catone, che
disse Periculatus sum. (Forcell. in Periculatus). Ed eccovi
appunto questo antichissimo verbo dimenticato nella letteratura latina, vivo e
verde ne’ volgari dal volgar latino derivati. Pericolare diciamo noi (e
non periclitare, come potevamo ben dire, ma non può esser oggi parola se
non poetica, e forse forse): peligrar gli spagnuoli, ed è lo stesso,
perchè in ispagnuolo periculum s’è fatto peligro. Sempre, ù oé dialeÛpv l¡gvn, i nostri volgari si trovano più simili all’antichissimo
che all’aureo latino. V. il Dufresne in Periculare. (4. Gen. 1822.).
Abbiamo però anche periclitare. V. la Crusca.
Volgus,
volpes dicevano
gli antichi latini ec. ec. e cento mila altre voci similmente, adoperando l’o in cambio dell’u. (V. il Forc. [2326]in O, U ec. ec.) Uso
proprio del volgo, proprio dell’antichità, e perciò amato anche recentemente da
quelli che affettavano antichità di lingua, come Frontone ec. Or quest’uso
appunto eccovelo nell’italiano, solito a scambiare in o l’u latino dei buoni tempi, e restituir queste voci nella primitiva loro forma ch’ebbero
fra gli antichi latini, e nelle vecchie scritture. È noto che tal costume è più
proprio dell’italiano che dello spagnuolo, e più assai che del francese. ec.
ec.
Alla
p.2315. È proprio, appunto per queste ragioni, de’ mediocri o infimi
drammatici, il sopraccaricare d’intreccio le loro opere, l’abbondare di episodi
ec. Il contrario è proprio de’ sommi. E la ragione è che questi trovano sempre
come tener vivo l’interesse dello spettatore (anche in una azione di poca
importanza) colla naturalezza dei discorsi, la vivezza, l’energia, collo
sviluppo continuo delle passioni, o col ridicolo ec. Quelli non sono mai
contenti neppur dopo che hanno trovato o immaginato un caso complicatissimo, [2327]stranissimo,
curiosissimo. Esauriscono in un batter d’occhio tutto ciò che il soggetto offre
loro. Cioè non sapendone cavare il partito che possono e devono, il soggetto non
basta loro se non per poche scene. Fatte o disposte queste; dopo di esse, o
nelle scene di mezzo si trovano colle mani vote (per ridondante di passione, di
ridicolo ec. che il soggetto possa essere), e non trovano altra via di tener
vivo l’interesse e la curiosità, che quella di andare a cercar nuovi episodi,
nuove fila, nuovi soggetti insomma, per esaurirli poi essi pure in un momento.
Non possono insomma trovarsi un solo istante senza qualche cosa da raccontare,
qualche filo da aggiungere alla tela, qualche soggetto ancor fresco, altrimenti
non hanno nulla da dire. E quanti autori sono di questo genere? quanti drammi?
999. per mille.
(4. Gen.
1822.)
Alla
p.1128. principio. Da cheF (come da cabo acaBar in ispagnuolo e noi
pure diciamo condurre ec. a capo, venire a capo ec.) si fa in
francese acheVer, mutata la f in v. Scambio (come altrove [2328]ho
detto, cioè p.2070. fine,) frequentissimo anche in francese, e frequentissimo
per regola come nel caso addotto, e non già per arbitrio, come schifare che si può dire ugualmente schivare. (4. Gen.1822.). Da clavis clef,
da cervus cerf, da nervus nerf, ec. ec. ec. Cioè tolta la
desinenza al solito, in vece di pronunziare nerv, pronunziarono nerf
ec.
Alla
p.155. poco sopra il fine. È anche maniera continuativa fra noi star facendo
dicendo, ec. V. la Crusca. Anzi il verbo stare, e per sua natura in
tutte le lingue (giacchè egli è propriamente ed essenzialmente un continuativo
di essere), e per proprietà della nostra, è il più adattato, o piuttosto è
precisamente quello ch’esprime la continuità o durata di qualsivoglia azione
(sebbene non molto elegantemente). P.e. s’io vorrò esprimere la forza di un
continuativo latino, non avrò che ad usare in italiano il verbo stare col gerundio esprimente quell’azione, e per lectare dirò star
leggendo, massime se l’azione non è affatto di moto, o materiale o ideale,
e metaforico ec. Ma volgarmente diciamo tutto giorno anche star passeggiando,
o camminando, o viaggiando e simili, e propriamente e
perpetuamente adoperiamo in questa forma il verbo stare in luogo di
universale continuativo.
(4. Gen.
1822.). V. p.2374.
[2329]Alla p.1136. fine. Fra le molte
prove che si potrebbero addurre di ciò, cavate dalla veramente profonda e non
superficiale investigazione della più remota antichità, v’è anche questa. Noi
diciamo che lo spirito denso dei greci fu bene spesso trasformato dai latini in
una s. Ma il fatto sta che gli antichissimi monumenti greci hanno essi
medesimi il sigma, dove poi si costumò di porre lo spirito denso, e forse anche
in luogo del lene. V. Iscriz. antiche illustrate dall’Ab. Gaetano
Marini, p.184. e soprattutto il Lanzi, della lingua Etrusca. Questo che cosa
dimostra? dimostra secondo me, che l’antichissima forma di quelle tali parole
comuni ab antichissimo al greco e al latino, era infatti colla s in
principio, e non collo spirito; che questo per indole di loro pronunzia fu coll’andar
del tempo sostituito dai greci parlatori, e poi dagli scrittori, al sigma, e
non viceversa la s allo spirito dai latini; che per conseguenza la forma
latina è più antica della greca, la pronunzia cioè e la scrittura latina di
tali parole; e che quindi in esse i latini hanno conservato l’antichità e il
primitivo più dei [2330]greci. V. p.2143. segg. 2307-8. ed altri miei
passi su questo punto di antichità. E quante altre simili osservazioni si
potrebbono fare sulle antichissime parole, proprietà, ortografie ec. delle due
lingue: osservazioni le quali mostrerebbero che quello che comunemente crediamo
venuto dalla Grecia nel Lazio, o è tutto al rovescio, o vien da origine comune;
e che quelle differenze che in tali cose s’incontrano fra il greco e il
latino e che da noi sono attribuite a corruzione sofferta da quelle parole ec.
passando nel Lazio, si debbono invece attribuire a corruzione sofferta in
Grecia; e nel Lazio conservano la loro forma antichissima, e non differiscono
dalla greca, se non perchè questa s’è allontanata essa stessa dal primitivo
assai più della latina.
Alla
p.1153. Tali versi de’ comici, giambici, ec. erano quasi ritmici, cioè regolati
e misurati piuttosto sul numero delle sillabe, e la disposizione degli accenti,
(poco anche osservata) che sul valore e quantità di ciascuna sillaba. Dunque
vuol dire che secondo il ritmo, tali vocali doppie si dovevano pronunziare
piuttosto come monosillabe che dissillabe [2331]ec. Dunque pel volgo,
anzi nella pronunzia quotidiana esse erano monosillabe, e non altrimenti, fino
agli ultimi tempi della lingua latina (giacchè questo med. costume si può molto
più notare ne’ versi espressamente ritmici de’ bassi tempi) ec. ec.
(5. Gen.
1822.)
Alla
p.928. L’Asia fu la prima a brillare nel mondo per la potenza: essa ebbe le
prime nazioni le prime patrie, e perciò ella regnò o colle
colonie, o colle leggi medesime e col governo le altre parti del mondo che da
lei furono popolate. Dopo l’Asia, o contemporaneamente, l’Egitto divenne
nazione e patria, e l’Egitto divenne conquistatore e quasi centro del mondo
sotto Sesostri ec. La Grecia chiamata bambina presso Platone, perchè
recentissima rispetto alle dette nazioni; la Grecia, quel piccol tratto d’Europa,
divenne à son tour il centro del mondo, e la più potente parte di esso, perchè?
Perch’ella in quel tempo era divenuta nazione e patria, mentre l’Asia e l’Egitto
aveano cessato di esserlo, e conservava il costume naturale, perduto dagli
Asiatici ec. E dopo [2332]che la Grecia a causa di questa preponderanza,
essendosi resa formidabile ai più grandi regni, pervenne poi anche a
conquistarli, distrusse l’immenso impero Persiano, compreso l’Egitto, e
mediante le conquiste di Alessandro, l’Asia l’Affrica, l’Europa divennero
effettivamente greche, e provincie greche, dopo tutto ciò per qual motivo quell’Italia
fin allora sconosciuta nel mondo, ignota nel numero delle nazioni e delle
potenze, crescendo a poco [a poco], ingoiò la Grecia e il suo impero, e stabilì
il propro regno sulle ruine di quello di Semiramide, di Ciro, di Alessandro ec.
ec.? Perchè l’Italia più tardi delle altre parti del mondo era divenuta
nazione: la natura già fuggita anche dalla Grecia, restava in questo fondo d’Europa:
vi sorgeva la mediocre civiltà (più vicina all’eccesso della barbarie, che all’eccesso
della civilizzazione a cui dopo gli Assiri, gli Egizi, i Persiani, erano
arrivati anche i greci); e questa li fece padroni del mondo: e sempre che la
mezzana civiltà troverassi in mezzo o a popoli non tocchi affatto da
incivilimento, o a popoli [2333]pienamente inciviliti (quale fu poi il
caso de’ settentrionali sull’impero romano, e lo è oggi di nuovo, massime
riguardo alla Russia, sul resto d’Europa); sempre che una nazione una patria
esisterà in mezzo a popoli che non abbiano mai avuta, o per l’estremo
incivilimento abbiano perduta la nazione e la patria; la mezzana civiltà
trionferà di tutto il mondo, e quella nazione che resta, o che nasce, per
piccola che sia, diverrà conquistatrice, e segnerà il suo nome nel catalogo
delle nazioni che hanno dominato universalmente; finchè questo medesimo dominio
non la ridurrà allo stato delle potenze da lei vinte, e distruggerà il suo
potere. Il che oggi, stante la marcia accelerata delle cose umane, avverrà più
presto che non soleva anticamente.
In
questo catalogo delle nazioni dominanti ne’ diversi tempi, dove io ho detto l’Asia,
tu devi dividere e porre successivamente le diverse nazioni dell’Asia ch’ebbero
impero: gl’indiani forse, e prima di tutti; gli Assiri, i Medi, i Persiani,
forse [2334]anche i Fenici, e i loro coloni Cartaginesi ec. E l’impero
francese (nato, vissuto e morto in vent’anni, il che serve di prova di fatto a
ciò che dico sulla fine della pagina precedente) merita anch’esso un posto fra
questo genere d’imperi. Perocchè sebbene la nazion francese è la più civile del
mondo, pure ella non conseguì questo impero, se non in forza di una rivoluzione,
che mettendo sul campo ogni sorta di passioni, e ravvivando ogni sorta d’illusioni,
ravvicinò la Francia alla natura, spinse indietro l’incivilimento (del che si
lagnano infatti i bravi filosofi monarchici), ritornò la Francia allo stato di
nazione e di patria (che aveva perduto sotto i re), rese, benchè
momentaneamente, più severi i loro dissolutissimi costumi, aprì la strada al
merito, sviluppò il desiderio, l’onore, la forza della virtù e dei sentimenti
naturali; accese gli odi e ogni sorta di passioni vive, e in somma se non
ricondusse la mezzana civiltà degli antichi, certo fece poco meno (quanto
comportavano i tempi), e non ad altro si debbono attribuire quelle azioni dette
barbare, di cui fu sì feconda [2335]allora la Francia. Nata dalla
corruttela, la rivoluzione la stagnò per un momento, siccome fa la barbarie
nata dall’eccessiva civiltà, che per vie stortissime, pure riconduce gli uomini
più da presso alla natura.
La
metafisica senza l’ideologia, è quasi appunto quello ch’era l’Astronomia prima
che fosse applicata alla matematica. Scienza incertissima, frivola, inesatta,
volgarissima, o piena di sogni e di congetture senz’appoggio. E molto più la
metafisica che l’astronomia. Nè molto minor certezza ed esattezza riceve la
metafisica dall’ideologia che l’astronomia dalla matematica, dal calcolo ec.
Da ciò
che altrove ho detto sul Buonarroti che scrisse apposta per dar vocaboli alla
Crusca, sul Salvini che non fu niente parco di nuovissimi vocaboli, o tirati da
lingue forestiere, o antiche, o da radici italiane, in tutte le sue scritture,
e che scrisse contemporaneamente alla compilazione del vocabolario, anzi finchè
visse non permise d’esser citato ec. apparisce che i nostri pedanti vogliono
espressamente che in quell’atto medesimo che si pubblica il vocabolario [2336]di
una lingua, restino per virtù di essa pubblicazione, rivocate in perpetuo tutte
le facoltà che tutti gli scrittori fino a quel punto avevano avute intorno alla
favella, e chiuse in quel momento per sempre le fonti della lingua, fino allora
sempre e incontrastatamente aperte.
Ho
parlato altrove del perchè la sveltezza debba piacere, e com’ell’abbia
che fare colla velocità, colla prontezza ec. Ho notato che questa
sveltezza piacevole, non è solo nella figura o delle persone, o degli
oggetti visibili, nè nei movimenti ec. ma in ogni altro genere di cose, e
qualità di esse. P.e. ho fatto osservare come la sveltezza, la pieghevolezza,
la rapidità della voce, de’ passaggi ec. sia una delle principali sorgenti di
piacere nella musica, massimamente moderna. Or aggiungo. Piace la sveltezza e
la rapidità anche nel discorso, nella pronunzia, ec. Le donne Veneziane
piacciono molto a sentirle parlare anche per la rapidità materiale del loro
discorso, per la copia inesauribile che hanno di parole, perchè la rapidità non
le conduce a verun intoppo ec., cioè non ostante la velocità della pronunzia e
del discorso, non intoppano ec. Anche [2337]a rapidità, la concisione
ec. dello stile, e il piacere che ne ridonda, possono e debbono in parte
ridursi sotto queste considerazioni.
(8. Gen.
1822.)
La
sveltezza o veduta o concepita, per mezzo di qualunque senso, o comunque, (v.
il pensiero precedente) comunica all’anima un’attività, una mobilità, la
trasporta qua e là, l’agita, l’esercita ec. Ed ecco ch’ella per necessità dev’esser
piacevole, perchè l’animo nostro trova sempre qualche piacere (maggiore o
minore, ma sempre qualche piacere) nell’azione, sinch’ella non è o non
diviene fatica, e non produce stanchezza.
(8. Gen.
1822.)
Volete
veder come sia naturale lo stato presente dell’uomo? Anche quello dell’agricoltore
che pur conserva, tanto più che gli altri, della natura? L’uomo presente, e già
da gran tempo, vuol latte vuol biade per cibarsi, vino per dissetarsi, lana per
vestirsi, vuole uova ec. ec. Ecco seminagioni, vigne, pecore, capre, galline,
buoi per arare ec. vacche per partorirli, e per latte ec. Ma il capro nuoce
anzi distrugge la vigna; così fanno i buoi ed alla vigna e ad ogni albero da
frutto se vi si lasciano appressare; le greggi, e gli armenti, e il [2338]pollame
ec. sterminerebbero i seminati se non si avesse infinita cura d’impedirlo; il
pollame nuoce alle stalle delle greggi, e degli armenti; i danni del porco
sarebbero infiniti ai campi e al bestiame, se non vi si avesse l’occhio ec. ec.
Insomma i bisogni che l’uomo si è fabbricati, anche i più semplici, rurali, ed
universali, e propri anche della gente più volgare e men guasta, si
contraddicono, si nocciono scambievolmente; e la cura dell’uomo non dev’esser
solo di procacciare il necessario a questi bisogni con infiniti ostacoli, ma
nel provvedere all’uno guardare assai, perchè quella provvisione nuoce ad un
altro bisogno ec. E pure è certo che più facilmente potremo annoverar le arene
del mare di quello che trovare una sola contraddizione in qualunque di quelle
cose che la natura ha veramente e manifestamente resa necessaria, o destinata
all’uso si dell’uomo, come di qualunque animale, vegetabile ec.
(8. Gen.
1822.). V. p.2389.
Alla
p.2019. marg. Così da metus us, metuere. Actuar (da actus us) per
ridurre ad atto o mettere in atto dicono gli spagnuoli. V. attuare nella
Crusca, [2339]actuare nel Ducange.
La
cagione poi per cui dalle voci della quarta congiugazione si facevano i verbi
in uare (o uere ec.) e non in are semplicemente come da
quelli della seconda, io credo che fosse questa, che le dette voci anticamente
e propriamente terminassero in uus, giacchè anche oggi, almeno nel
genitivo singolare, o ne’ nominativi e accusativi plurali, si suole scrivere metûs,
fluctûs, actûs ec. col circonflesso. V. i gramatici, e gli eruditi. Infatti
contro il costume della lettera u, nella prosodia latina, essa lettera è
lunga nella desinenza del genitivo e ablativo singolare, nominativo e
accusativo plurale della quarta declinazione. Dove appunto io credo che l’u anticamente fosse doppio, e quindi poi lungo, come l’a dell’ablativo
singolare 1. declinazione per la stessa causa. V. la p.2360. 2365. (Ed osserva
che questa è un’altra prova dell’essersi dagli antichi pronunziate le vocali
doppie come sillabe semplici, giacchè metus ec. presso tutti i poeti è
dissillabo, e metum seguito da vocale, resta monosillabo ec.) Laonde
togliendo ad esse voci la terminazione in us come nè più nè meno a quelle
della seconda, restava un altro u, ed aggiungendo la desinenza in are,
conveniva dire fluctu-are, e non fluct-are ec. Come appunto da continuus,
ch’essendo della seconda, pur finisce in uus, si fa (togliendo la
desinenza in us) continu-are, da perpetuus pertu-are, da cernuus
cernu-are, ec. da vacu-us evacu-are, da Febru-us o da Febru-a,
orum, februare ec. da obliquus obliquare ec. da viduus viduare
ec. (9. Gen. 1822.), da Fatua fatuari, da fatuus infatuare.
[2340]Alla p.2357. Faxo usato
assai dagli scrittori, massime antichi, giacchè è parola al tutto antica, per faciam fut. indicat. non è gramaticalmente altro che un’antica forma del fut.
congiunt. fecero, come levasso di levavero, presso Cic.
nel principio de Senectute. V. il Forcell. in Faxim.
Alla
p.1107. fine. Ausus participio del neutro o attivo audere,
participio di significazione neutra o attiva alla forma dei deponenti
(participio che anche si coniuga, dicendo ausus sum, es, ec. in luogo di
che gli antichi dissero ausi, onde poi comunemente ausim per ausus
sim o fuerim), può servire anch’esso molto bene a dimostrare questo
antico uso di dare ai verbi attivi o neutri il participio passato di
significazione non solamente passiva, ma anche attiva o neutra, come ne’
deponenti. Ausus è anche passivo. (9. Gen. 1822.). V. pure il Forcell.
in osus, exosus, perosus participii attivi. Cautus incautus sono
qui cavit o non cavit, participii verissimi di caveo verbo
neutro, e significanti non passione, ma azione neutra. S’usano anche passivamente
come appunto amatus. V. il Forcell. e p.2363.
Alla
p.1114. marg. Da motus di movere si ha siccome motitare,
così anche motare della cui significazione continuativa, e di costume,
ec. puoi vedere il Forcell. in moto, in motatio ec. e
segnatamente in motator.
(9. Gen.
1822.)
Alla
p.1181. marg. fine. Abbiamo pure le [2341]carra dal neutro
carrum che i buoni latini dicono piuttosto carrus, ma che per
testimonianza di Nonio, si soleva dire carrum. Ma egli, dice il Forc. de
suo tempore loquitur, ed io credo ch’egli voglia intendere che così
volgarmente si diceva, benchè i buoni scrittori usassero il mascolino. V. il
Forcell. e il Glossar.
(9. Gen.
1822.)
Alla
p.1120. fine. Vedi il Forcellini in certo as, il quale egli chiama
frequentativo, ed io credo piuttosto continuativo da cerno, quasi cernito,
derivando da certus originariamente participio di cerno, e lo
stesso che cretus. V., dico, il Forcell. tanto in certo, quanto
in certus, in cerno ec.
(9. Gen.
1822.). V. p.2345.
Alla
p.2138. marg. fine. Così appunto di certus abbiamo detto nel pensiero
qui sopra, il quale vedi, e di certare che ne deriva. Il qual certus non è originariamente addiettivo ma participio, e certare viene così da
un participio, e non come pare, da un addiettivo. (9. Gen. 1822.). Di tutus
onde tutari o tutare vero continuativo di tueor, o tuor,
o tueo ec. v. il Forcell. in tutti questi luoghi. Sebbene tutus sia divenuto semplice addiettivo esso non è che un participio.
[2342]Il mondo deride chi fedelmente e
sinceramente osserva i suoi doveri, o prova effettivamente e segue i sentimenti
dettati dalla natura e dalla morale; e si scandolezza e biasima chi trascura
pubblicamente i medesimi doveri, chi mostra di disprezzarli, chi pienamente non
gli adempie in faccia al pubblico, quando anche egli abbia i suoi giustissimi
motivi per non farlo, e non seguire il costume in questa parte. Una
donna è derisa s’ella piange sinceramente il suo marito recentemente morto, se
a chi la tratta, dà segno di sentir vivo e vero dolore della sua perdita; ma s’ella,
anche per circostanze imperiose, trascura il menomo dei doveri che il costume
impone in questi casi, s’ella un giorno più presto del tempo prescritto dall’uso
si fa vedere in pubblico, s’ella, anche a solo fine di portar qualche
alleggerimento al suo vero dolore, si permette prima del detto tempo, qualche
menomo spasso o distrazione, il mondo severissimamente la giudica, e
inesorabilmente la condanna, senz’aver riguardo a ragioni nè circostanze, per
reali che possano essere, e non lascia di mordere [2343]e di riprendere
la più piccola violazione dei doveri apparenti, mentre è prontissimo a
schernire chi gli osservi di buona fede ec.
Alla
p.1141. fine. Rechiamo un altro esempio del quanto giovi la mia teoria a
conoscere e sentire il vero proprio ed intimo significato di moltissimi passi
degli ottimi scrittori latini, ignorato finora, o male, o imperfettamente e
indistintamente sentito, e interpretato.
Cogite
oves, pueri: si lac praeceperit aestus,
Ut nuper,
frustra pressabimus ubera palmis.
Virg.
Ecl. 3. v.98.99. Quel pressabimus che cos’è? Lo stesso che prememus?
Non vedete quanto dice di più? Quanto accresce la durata dell’azione di premere?
Perocchè vuol dire, se il latte sarà consumato dal caldo, invano STAREMO
LUNGAMENTE PREMENDO colle mani le mammelle delle pecore. Infatti quando il
latte non viene, tu non ti contenti di premere, ma stai un pezzo premendo, per
vedere di farlo venire, e proccurando di farlo venire. D’altra parte è questa
forse un’azione frequente? È frequentativo il pressabimus? è diminutivo?
Come mai può aver qui loco o la frequentazione [2344]o la diminuzione?
Questa sarebbe tutta contraria al proposito: quella niente espressiva. Che cosa
è egli dunque il pressabimus? Vero continuativo, esprimente la maggior
durata dell’azione significata da premere, e come tale espressivissimo,
e proprissimo in questo loco, ed efficacissimo. Efficacia e proprietà che non
ha potuto finora esser ben intesa da alcuno che abbia considerato pressare
o come sinonimo o come frequentativo di premere, e che non l’abbia
tenuto per capace di accrescere la durata dell’azione, cioè per continuativo.
V. gl’interpreti. (10. Gen. 1822.). Pressare continuativo di costume, v.
in Virg. En. 3.642.
Alla
p.1108. sul principio. Da tentus parimente, ma non di tenere,
bensì di tendere, viene distentare, ed extentare, de’
quali v. il Forcell. Il primo si trova a quel ch’io sappia in un solo luogo ed
è di Virgilio, cit. dal Forcell.; dove l’Heyne dietro il Vossio stampò distentant,
presente ottativo, l’Heinsio distendant, il Forcell. e bene, secondo me,
distentent. Non so qual verbo possa dinotare un distentant presente ottativo. Forse e l’Heyne, e il Vossio, e l’Heinsio furono tratti in
errore dal [2345]non conoscere la teoria de’ continuativi, della loro
formazione e del loro significato. Distentare qui par che sia un
continuativo significante costume. Distentent, sempre riempiano
ec. Il verbo extentare da extentus di extendere, di cui v.
il Forc. può servir di prova alla verità di questa lezione distentent,
cioè del verbo distentare. E parimente il verbo ostentare (di cui
v. p.1150.) da ostentus di ostendere. Distentare è senza
dubbio continuativo indicante costume, come responsare ne’ luoghi
addotti p.1151. Ed ostentare lo è forse parimente nel luogo di Cic. p.1150.
V. anche Praetento nel Forcell. in fine. V. pure Intentus e intentare
verissimo continuativo di intendere. Abbiamo pure, e così gli spagnuoli intentare
da tentare. V. Forc. intentatus, e il Glossario. Retentus
per retensus, Forc. V. gl’interpreti e comentatori ec. di Virgilio.
Viceversa il nostro contentare (contenter, contentar)
vengono da contentus di continere, come tentare da tenere.
Contentare latino è del Glossario. (10. Gen. 1822.). Retentare
vedilo nel Forc. ed En. 5.278.
Alla
p.2341. capoverso 1. Certare continua l’azione di cernere, come captare
di capere. Nè il prendere nè il decidere possono essere
azioni continue ma ben continue possono essere quelle azioni che
conducono o son necessarie a prendere e a decidere, e che producono questo e quello.
O piuttosto cernere, e capere sono atti, certare e captare
azioni. Ed osserva che disceptare formato da captare significa
appunto un’azione continua simile a quella di certare. Del resto certare
sta per cernitare (come [2346]dice il Forcell.) solamente in
quanto l’antico e regolare participio di cernere dovette essere non cretus nè certus ma cernitus. Non già che se cernitare si
trovasse, e se certare n’è sincope, esso venga da altro che dal
participio passato di cernere. E da che il detto participio fu ridotto a
certus (vero participio di cernere, e più antico di cretus ch’è una pura metatesi di certus siccome questo originariamente è
sincope di cernitus, come lectus di legitus ec.)
regolarissimo suo derivativo è certare, continuativo vero di cernere
e per forma e per significato.
Dell’uso
invalso fra i latini fino da antichissimi tempi di contrarre i participii
passati di moltissimi verbi, tanto che questi participii nella buona latinità
non si trovano più se non contratti, come lectus, e non mai legitus ec.,
e non solo nella buona, ma in qualunque o anteriore o posteriore latinità, non
si trovano più i veri e regolari participii, ma solo i loro vestigii ne scopre
l’erudito; v. p.1153. capoverso ult. ec.
[2347]Se dunque assai volte si trovano
nella lingua italiana, o spagnuola o francese altri tali participii contratti,
che nella buona latinità, non si trovano se non distesi, non perciò si debbono
credere recentemente corrotti, ma così venuti dal volgare latino, vedendo che
tale fu l’antichissimo costume di quella lingua, prevaluto anche negli ottimi
scrittori in riguardo a molti altri participii dello stesso genere. E molti
infatti di questi participii che l’uso italiano ec. contrae, e che gli
scrittori latini non solevano contrarre, si trovano nondimeno contratti allo
stesso modo de’ moderni, in altri scrittori latini, ne’ poeti, e soprattutto ne’
più antichi, nova prova di ciò ch’io dico. P.e. posto dicono gl’italiani,
e puesto gli spagnuoli, per quello che i latini sogliono scrivere positus.
Ma voi troverete postus ne’ frammenti di Ennio, in Lucrezio, in Silio.
(Forcell. positus, a, um, in fine.) Troverete repostus
(riposto) in Orazio ec. Compostus (composto, compuesto)
in Virgilio Eneide. 1. 249. ed altri de’ quali v. il Forcell. Anzi questa forma
pare [2348]più antica dell’altra, e propria degli antichi latini, ed ha
sapore antico, e nondimeno si trova, come vedi, anche in Virgilio ec. e
nondimeno vive nelle lingue moderne; segno ch’ella fu propria continuamente del
conservatore dell’antichità, dico il volgare. E credo che la troverai anche
assai spesso nelle iscrizioni di qualunque tempo, che erano o composte o incise
da uomini volgari, nelle medaglie, ne’ latino-barbari ec. de’ quali v. il
Glossar.
Alla
p.1107. principio. In quel luogo però di Virg. Ecl. 1. v.52.-53. Fortunate
senex! hic inter flumina nota, Et fontes sacros frigus captabis opacum, il
verbo captare è vero continuativo nel senso stesso di prendere, e
vuol dire STARAI PRENDENDO il fresco. Nè ha già che far nulla col
frequentativo.
Alla
p.2222. marg. Quest’uso di dire p.e. erat invece di esset o fuisset,
è un’enallage molto frequente ne’ latini (anche ottimi) scrittori; frequente ed
elegante in italiano ancora, (e principalmente nei nostri più antichi ed
eleganti scrittori) precedendola, o accompagnandola, o seguendola ec. la
particella condizionale, (siccome pure in latino) a questo modo: [2349]se
non fosse stato aiutato, egli moriva, ovvero egli moriva, se non era
aiutato ec. cioè moriebatur in luogo di sarebbe morto, mortuus
esset, periisset ec.; analogo finalmente assai, benchè non
precisamente conforme, a quello degli spagnuoli di cui ora si discorre ec.
(13 Gen.
1822.). V. p.2350.
Alla
p.1108. Nelle aggiunte appartenenti a questa teoria de’ continuativi mi pare di
aver già parlato de’ verbi cursare da cursus di currere
(v. infatti la p.1114.), e forse anche di occursare, concursare,
e altri tali composti. De’ quali tutti bisogna, occorrendo, vedere il Forcell.
Intanto ecco un esempio di Virgilio dove il verbo recursare è preciso
continuativo significante consuetudine (non già frequenza). Parla di Venere.
En. 1. 662. Urit atrox Iuno, et sub noctem cura recursat. Cioè recurrere
solet. E notate che Virgilio poteva egualmente dire recurrit, e non
senza ragione e proprietà di lingua ha preferito recursat. Questo
esempio si può anche riferire alla p.1148. segg.
(13.
Gen. 1822.)
[2350]Alto, altezza e simili sono
parole e idee poetiche ec. per le ragioni accennate altrove, (p.2257.) e così le
immagini che spettano a questa qualità.
Alla p.2349. Virg. En. 2. 599.600. et, ni mea cura
resistat, Jam flammae TULERINT, inimicus et HAUSERIT ensis. In vece di tulissent o ferrent.
Locuzione comunissima nell’elegante latinità, ed analoga anch’essa al proposito
nostro. Così En. 3.187. crederet, e moveret per credidisset,
e movisset, avrebbe creduto, o mosso. Locuzione pure
frequentissima. Traherent per traxissent En. 6.537. Admoneat
e irruat per admoneret irrueret, ib. 293.-4. e diverberet
parimente; modo pure elegante e ordinarissimo. Generalmente si può
osservare una gran varietà, ed un grand’uso di figure di dizione presso gli
scrittori latini circa i tempi del congiuntivo, ora scambiati fra loro, come
qui che il perfetto sta in vece del piucchè perfetto, ora scambiati con quelli
dell’indicativo ec. E la stessa varietà si trova intorno ai medesimi tempi
nelle 3. lingue figlie, varietà o relativa alla lingua latina, o ad esse stesse
fra loro, o a ciascuna di esse in se stessa. Varietà derivata certo dal volgare
latino, come si vede per gli addotti esempi.
(14.
Gen. 1822.)
Alla
p.2249. principio. Qua, que o quae, [2351]qui,
quo, quu, sono sempre monosillabi in latino, (seppur talvolta, ma
per licenza, non per regola, non dividono il quü), eppure essi sono
bivocali, e non contati fra’ dittonghi. Gua gue ec. ora sono
dissillabi come in ambiguus a um, irriguus, exiguus
ec. ora monosillabi, come in anguis, sanguis ec. Che ragion v’è
perchè ora dissillabi, ora no? Per natura dunque essi non sono nè l’uno nè l’altro,
ma la sola pronunzia decide. Dicono che l’u spesso si considera come
consonante. V. il Forcell. in U. Che si consideri va bene, ma non lo è
in natura, e gua ec. e altri simili bivocali, hanno effettivamente due
suoni vocali, e tuttavia si pronunziano monosillabi, nè sono contati fra’
dittonghi. Qua ec. gua ec. è sempre monosillabo in italiano, e
neppur la licenza poetica li può dividere in 2. sillabe. Così in ispagnuolo.
(14.
Gen. 1822.). V. p.2359. fine.
Alla
p.2330. Nella lingua sascrita (di immensa antichità) troviamo parole, forme,
declinazioni, coniugazioni ec. o similissime, o al tutto uguali alle
corrispondenti latine, massime se si abbia riguardo, come [2352]va
fatto, alle sole lettere radicali. E notate che gran parte di questi nomi o
verbi sono di prima necessità (come il verbo essere, la parola uomo,
padre, madre ec.), o rappresentano idee affatto primitive nelle
lingue. E parecchie di tali voci sascrite si trovano anche corrispondere alle
analoghe greche, ma effettivamente meno che alle latine, e forse in minor
numero. Che segno è questo dunque, se non che la lingua latina conserva
assolutamente più numerosi e più chiari della greca i vestigi della remotissima
antichità, della sua remotissima condizione, e forse della sua sorgente?
Giacchè le relazioni avute dal Lazio coll’India sono tanto antiche che si
perdono nella caligine, e sono ignote alla storia. Aggiungete che tali parole
ec. essendo di prima necessità ed uso, dimostrano non una semplice, nè recente relazione avuta con quelle parti, ma un’antichissima derivazione o comunione
di origine con quei popoli e quelle lingue. E le dette parole sono
assolutamente proprie e primitive della lingua latina non già forestiere nè
recenti nè ascitizie ec. E nessuno le può credere o derivate dall’India [2353]mediante
il più recente commercio avuto da’ romani con essa, quando la lingua latina era
già formata, e quelle parole in uso continuo negli scrittori, monumenti ec. che
ancora rimangono, ed analoghe poi anche alle greche; o viceversa derivate in
quel tempo dal Lazio nell’India, essendo esse di uso sì quotidiano e
necessario, essendo la lingua indiana antichissima, (che certo non aspettò sì
bassi tempi a provvedersi di parole necessarie, quando essa era già da gran
tempo più perfetta della latina) essendo ancora quelle coniugazioni, forme,
parole ec. tanto proprie e inerenti al capitale, e all’indole e sostanza del
sascrito, quanto del latino; e finalmente potendosi, cred’io, trovare, e
trovandosi che l’uso loro nel sascrito è anteriore non poco ad ogni menoma
relazione del Lazio coll’India, che sia conosciuta dalla storia. Nè si può
credere che tali parole venissero anticamente nel Lazio per mezzo della lingua
greca, mentre esse sono più simili al sascrito di quello sieno le corrispondenti
greche, laddove al contrario avrebbe dovuto essere. E sono più simili alle [2354]sascrite
che alle greche. Il che in ogni modo è segno di ciò che vogliamo dimostrare,
cioè che la lingua latina derivata da una stessa, o da simil fonte colla greca,
o quando anche fosse figlia della greca, conserva i vestigi dell’antichità (e
sua e greca) più della stessa lingua greca, in quanto e nel modo che l’una e l’altra
ci sono note.
Virg.
En. 6. v.567.-69. dice che Radamanto, il giudice criminale delle anime,
condanna coloro che non hanno fatto ammenda delle loro colpe. Castigatque
auditque dolos; subigitque fateri Quae quis apud superos, furto laetatus inani,
(cioè vanamente rallegrandosi di aver negata agli Dei la soddisfazione dovuta
loro per li suoi falli) Distulit IN SERAM commissa piacula MORTEM.
Parole notabilissime perchè danno a conoscere come anche i gentili avessero
chiara idea ed opinione della possibilità e necessità della penitenza, e dell’empietà
e stoltezza di chi indugia a pentirsi e placar gli Dei sino alla morte. E
notate qui in Virgilio un’espressione quasi Cristiana. Della possibilità e
necessità d’impetrare dagli Dei il perdono delle proprie colpe, v. Senofonte,
Memorab. l.2. c.2. p.14.
(22.
Gen. 1822.)
[2355]Alla pagina 1150. fine. Ostentare
assoluto continuativo di ostendere in senso di semplicemente mostrare,
ovvero far mostra ec. e continuativo di durata, eccolo in Virg. En.
3.701.-4. Adparet Camerina procul, campique Geloi, Immanisque Gela fluvii
cognomine dicta. Arduus inde Acragas OSTENTAT maxima longe Moenia,
magnanimum quondam generator equorum. Cioè, non tanto fa pompa,
quanto semplicemente dimostra, ma siccome quest’azione di dimostrare qui
è continuatissima, però Virgilio potendo pur dire ostendit, che sarebbe
stato improprissimo, benchè egualmente adattato al verso, disse
giustissimamente ostentat.
(22.
Gen. 1822.)
Noi
diciamo leccare, i francesi lécher, (gli spagnuoli vedilo), i
greci leÛxein, i latini nulla di simile. A primissima giunta è
manifesto che il greco leÛxv, cioè lecho, o licho è tuttuno col nostro lecco, che anche, volgarmente, si dice licco.
E notate pure che il francese non dice léquer o lecquer, ma lécher,
conservando il x greco. Queste parole sono antichissimamente e
primitivamente proprie delle nostre lingue. Sono volgarissime, anzi plebee; nè
s’usa altra voce nel linguaggio familiare per dinotare la stessa azione. [2356]Antichissima
e proprissima della lingua greca è la voce leÛxv. Come dunque questa conformità fra
l’antichissimo greco, e il modernissimo, vivente, ed usualissimo italiano,
francese ec.? Non è egli evidente che leccare, lécher ec. ci
viene dal volgare latino? E da qual altra fonte che da un volgare ci può esser
venuta una parola sì volgare, e propria del nostro più familiare discorso? E
qual altro volgare che il latino può ed avere avuta questa parola greca,
usandola volgarmente, ed averla comunicata a queste due lingue moderne, nate l’una
separatamente dall’altra? Ma come potè nel volgare latino divenire sì
familiare, e conservarsi poi sino all’ultimo, un antichissimo verbo greco?
Certo il volgo latino non istudiava il greco, e più grecizzanti erano i nobili
che la plebe. È dunque manifesto che tal verbo deriva niente meno che da quella
primitiva sorgente da cui vennero il greco e il latino (volgari tutti due
quando nacquero, come son tutte le lingue); e che perduto poi, o escluso dalle
polite scritture, e dal linguaggio nobile, come tante altre, [2357](e
come accade appunto nell’italiano che parecchie voci volgari benchè derivate
dalla purissima latinità, cioè dalla nostra madre, si escludono dalle polite
scritture o discorsi, perchè appunto fatte troppo familiari dall’uso quotidiano
della plebe, ec. e si antepongono altre d’origine o di forma corrottissima)
si conservò perpetuamente nel popolare. Ed appunto qui possiamo osservare un
esempio di ciò che ho detto nella parentesi, poichè lingo (v. il
Forcell.) non è che corruzione di leÛxv, o lecho, o licho;
pur quello fu adottato nelle scritture, questo escluso, benchè certo esistesse
nella lingua latina, come abbiamo veduto. V. il Ducange in Lecator, e
nota anche Licator sì quivi in un esempio, come al suo luogo.
Ho detto
altrove che lo spagnuolo sitiar per assediare forse viene da un sidiari,
o sidiare semplice di obsidiari ec. Aggiungo, se quivi non l’ho
già detto, che parimente sitio per assedio non sembra esser altro
che sidio sidionis, cioè obsidio tolta la preposizione ob la quale infatti non è che aggiunta ad una parola semplice, che non può essere
se non [2358]sidio. E siccome il semplice è più antico del
composto, così veniamo ad avere nello spagnuolo (certo non per altro mezzo che
del volgare latino) una parola più antica di obsidio, ignota alle
scritture latine, che non riconoscono se non quest’ultima, e per conseguenza
non potuta conservarsi se non nel volgare fino ab antichissimo. (24. Gen.
1822.). V. il Gloss. se ha nulla.
Alla
p.2282. marg. Non trovi ne’ moderni volgari mas, ma sibbene masculus
(maschio, mâle, v. lo spagnuolo). Oculus è mero diminutivo
di un antico occus perduto nelle scritture latine, restandovi in vece il
solo diminutivo, (perduto anche nel volgare latino seppur da occus non
deriva l’oco dei russi), onde occhio, oeil (come da auricula
oreille, secondo l’uso della pronunzia francese), e ojo, che non
viene già da occus, ma da oculus, come oreJA da auriCULA ec. E v. in proposito di ciò e di tali diminutivi la p.980. seg.
Alla
p.2052. La moderata difficoltà anche d’intendere le scritture, gli stili, ec.
da qualunque cosa derivi, o dal pensiero, o dall’elocuzione, e nominatamente se
deriva dalla concisione, rapidità, strettezza dello stile ec. piace perchè pone
l’animo in esercizio, e par che gli dia una certa forza, e tutte le [2359]sensazioni
di forza sono piacevoli, sì nell’animo che nel corpo, siccome appunto è
piacevole un moderato esercizio del corpo, che gli dà un conveniente senso di
vigore ec.
(24.
Gen. 1822.)
Alla
p.1154. marg. A questo luogo appartiene anche il verbo irritare, in
quanto significa irritum facere (forse anche sempre), significazione
però poco latina, dice il Forc. Irrito, in fine. Giacchè irritus
viene da ratus, participio di reor ec. V. il Forcell. in tutti
questi luoghi, e il Gloss. se ha nulla. Del resto appunto il vedere che da ratus
in composizione si fa irritus, e cento altri esempii di diversissimo
genere, dimostrano quanto la mutazione dell’a in i sia familiare
ai latini, quando le loro radici o parole comunque, subiscono qualche passione,
qual è quella di formare p.e. da imperatus un frequentativo, cioè imperitare.
(24.
Gen. 1822.)
Alla
p.2351. fine. Così dico di cui, huic, ec. monosillabi. V. il
Forcell. in Qui ec. e la Regia Parnasi.
Alla
p.2319. marg. Circa le contrazioni, indizio [2360]certo di ciò ch’io
voglio dimostrare, v. particolarmente il Forcell. in Semianimis all’ultimo
§. dove osserva che queste tali sillabe formate presso i poeti di più vocali,
sono già notate dagli eruditi, e chiamate figure (cioè in realtà dittonghi de’
quali nella prosodia non si discorre), e queste denominate co’ loro proprii
nomi, cioè sinizesi, sinecfonesi, ec. V. p.e. in Virg. En. 4.686. Semianimis
quadrisillabo; ib. 3.578.5.697. semiustus trisillabo ec. Osserva pure
che la sillaba mia di semianimis è breve, benchè doppia di
vocali, il che dà forza alla mia opinione. E di tutte cotali voci v. la Regia
Parnasi. Ho detto p.2339. (e vedila) che i nominativi specialmente plurali, i
genitivi singolari ec. della quarta conjugazione sono tutte contrazioni
perocchè da principio si diceva manuus ec. con doppio u. Or vedi
a questo proposito, manum, gen. plur. in Virg. En. 3.486. cit. da me
p.2250. marg. Ed anche altre volte troverai così contratti i genitivi plurali
della quarta, e mi ricordo di averne trovato altro esempio nello stesso
Virgilio. (En. 6.653.) Contratti dico, o nella scrittura, o nella ragion del
metro. Credo anche che hoc ablativo si dicesse anticamente, e forse si
scrivesse hooc, o insomma sia contrazione di 2 vocali ec.
(25. Gen. 1822.). V. p.2365.
Extremus, formaque ante omnes pulcher Julus,
Sidonio EST INVECTUS equo: quem candida Dido
[2361]Esse sui dederat monumentum et
pignus amoris.
En. 5.570.-2. Assolutamente per invehitur, locuzione simile al
nostro volgare: è posto, è assiso; è portato da un cavallo
Sidonio ec. Perocchè il nostro presente passivo è formato del verbo essere
e del participio passato. Non così in latino. E tuttavia in questo luogo est
invectus, non è preterito, ma presente. Ed in uno scrittore così elegante
come Virgilio. V. i Comentatori. Del resto v. il contesto di Virgilio, e
troverai che non può essere se non presente, quali sono, prima e dopo, gli
altri verbi da lui adoperati; portat, ducit, fertur, ec.
Che vuol
dire che l’uomo ama tanto l’imitazione e l’espressione ec. delle passioni? e
più delle più vive? e più l’imitazione la più viva ed efficace? Laonde o
pittura, o scultura, o poesia, ec. per bella, efficace, elegante, e
pienissimamente imitativa ch’ella sia, se non esprime passione, se non ha per
soggetto veruna passione, (o solamente qualcuna troppo poco viva) è sempre
posposta a quelle che l’esprimono, ancorchè con minor perfezione nel loro
soggetto. E le arti che non possono esprimere passione, come l’architettura,
sono tenute le infime fra le belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la
lirica son tenute fra le prime per la ragione [2362]contraria. Che vuol
dir ciò? non è dunque la sola verità dell’imitazione, nè la sola bellezza e dei
soggetti, e di essa, che l’uomo desidera, ma la forza, l’energia, che lo metta
in attività, e lo faccia sentire gagliardamente. L’uomo odia l’inattività, e di
questa vuol esser liberato dalle arti belle. Però le pitture di paesi, gl’idilli
ec. ec. saranno sempre d’assai poco effetto; e così anche le pitture di
pastorelle, di scherzi ec. di esseri insomma senza passione: e lo stesso dico
della scrittura, della scultura, e proporzionatamente della musica.
(26.
Gen. 1822.)
Gl’italiani,
i francesi gli spagnuoli usano il verbo adcolligere, (accogliere,
accueillir, acoger) in senso di excipere. V. i rispettivi
vocabolari, il Gloss. e il Forcell.
Aurum rustici orum dicebant, ut auriculas oriculas. Festo in Orata, presso il
Forc. auricula. Ed oggi pure italiani francesi e spagnuoli dicono come
quegli antichi rustici, nè solo queste ma mille altre tali parole.
(27.
Gen. 1822.)
Aliter usato in latino alla maniera
italiana di altrimenti, cioè come noi diciamo p.e. fa questo; [2363]altrimenti
t’ammazzo, cioè per se no, o se non che ec. (v. la Crusca in Se
non §. 4. dove spiega sin secus, alioquin, e in italiano, Altrimenti,
benchè a questa voce non faccia parola di tal uso) usato dico in tal senso, è
raro assai ne’ buoni latini, e potrebbe credersi sproposito, e frase moderna.
Eccone esempio dall’En. 6.145. segg. Et rite repertum (il ramo d’oro,
sacro a Proserpina come dice v.138.) Carpe manu. Namque ipse volens
facilisque sequetur, Si te fata vocant: ALITER non viribus ullis
Vincere, nec duro poteris convellere ferro. V. il Forcell. aliter §.
ult. Dubito però che quei 2. esempi, specialmente il primo, facciano
precisamente al caso.
(27.
Gen. 1822.)
Alla
p.2340. marg. Vedi pure il Forcell. in Fido, Fisus, Confido,
Confisus (participii passati non passivi ma neutri, e non di deponenti
ma di neutri), e Virg. En. 5. v. penult. (870-1.) O nimium coelo et pelago CONFISE
sereno, Nudus in ignota, Palinure, iacebis arena.
(27.
Gen. 1822.)
Quei
pochissimi poeti italiani che in questo o nel passato secolo hanno avuto
qualche barlume di genio e natura poetica, qualche poco di forza nell’animo [2364]o
nel sentimento, qualche poco di passione, sono stati tutti malinconici nelle
loro poesie. (Alfieri, Foscolo ec.). Il Parini tende anch’esso nella
malinconia, specialmente nelle odi, ma anche nel Giorno, per ischerzoso
che paia. Il Parini però non aveva bastante forza di passione e sentimento, per
esser vero poeta. E generalmente non è che la pura debolezza del sentimento, la
scarsezza della forza poetica dell’animo, che può permettere ai nostri poeti
italiani d’oggidì (ed anche degli altri secoli, e anche d’ogni altra nazione),
a quei medesimi che più si distinguono, e che per certi meriti di stile, o di
stiracchiata immaginazione, son tenuti poeti, l’essere allegri in poesia, ed
anche inclinarli e sforzarli a preferir l’allegro al malinconico. Ciò che dico
della poesia dico proporzionatamente delle altre parti della bella letteratura.
Dovunque non regna il malinconico nella letteratura moderna, la sola debolezza
n’è causa.
(27.
Gen. 1822.)
È
proprio della nostra lingua, della francese della spagnuola il far servire la
preposizione senza col suo caso, come per aggettivo, p.e. dicendo luogo
senz’acqua, vento senza umidità, casa senza luce ec. cioè priva
di ec. [2365]Ciò non è frequente in latino e può parere un
barbarismo. Pur vedilo in Virg. En. 6.580. nel Forc. in sine, I.
esempio, nel detto di Caligola presso Svetonio, arena sine calce ec.
Così noi ci serviamo d’altre preposizioni allo stesso modo; uso non molto
proprio del buono latino, ma di cui pur si troverebbero molti altri esempi. Ce
ne serviamo pure a modo di avverbi, come ho detto p.2264. segg.
Alla
p.2360. fine. Come dunque si contrasse poi il genitivo plurale dicendo manum
per manuum, così si dovettero contrarre gli altri casi, che dovevano da
principio aver doppio u, come appunto il detto genitivo. Parimente il
vedere che l’i, sempre o quasi sempre breve nelle regole della prosodia
latina (dico nelle regole, e non in quei casi che dipendono dal solo costume,
come in italia ec.) è regolarmente e sempre lungo nella desinenza dei
dativi plurali della prima e 2. declinazione, fa credere che quivi da principio
egli fosse doppio, o accompagnato da qualche altra vocale, che rendesse quella
sillaba bivocale, e dÛfJoggon. Nel qual proposito osservate che
le vocali lunghe per natura nel greco, h, ed v furono da principio doppie cioè
due E ?, due OO. Nello stesso modo io penso che
tali vocali lunghe per regola nel latino, fossero da principio doppie.
(28.
Gen. 1822.)
Nimium
vobis Romana propago
Visa
potens, superi, propria haec si dona fuissent.
Virg.
En. 6. 870-1. [2366]parlando di Marcello giuniore in persona di Anchise.
Riferiscilo a quello che ho detto altrove, dell’invidia delle cose umane
attribuita dagli antichi agli Dei, del credere che gli Dei potessero
ingelosire, e pigliar ombra e timore della nostra potenza ec. Della quale e d’altre
simili opinioni tanto assurde, quanto naturali e primitive, non si trovano in
Virgilio se non piccoli vestigi, essendo egli troppo dotto, e scrivendo in
tempo troppo spregiudicato, e filosofico, e cominciato ad attristare dalla
metafisica, che produsse di lì a poco il Cristianesimo.
Meglio per più vedilo nella
Crusca, stimato idiotismo provenzale. Adflictis MELIUS confidere rebus
dice Virg. En. 1.452. Vedi il Forcell. in Melior, e in confido, o
Fido, e gl’interpreti di Virgilio.
(29.
Gen. 1822.)
Tra
me, tra se,
fra te ec. dicono gl’italiani (credo anche gli spagnuoli) per quello che
i latini mecum, secum ec. cioè dentro di me, nel mio
pensiero ec. V. la Crusca. Eccovi questa stessa frase in latino, e presso
scrittore elegantissimo qual è Virg. En. [2367]1.455. dove inter se,
io credo certamente che in verità non vaglia altro che questo. Vedi gl’interpreti.
Il Forcell. in inter, non ha nè questo nè altro esempio nè significato
simile. Vedilo in Se, Me ec. se avesse nulla, e così l’Append. e
il Glossar.
(29.
Gen. 1822.)
Alla
p.1132. verso il fine. Così di gerere in aliger, armiger, penniger;
di ferre in armifer, alifer (v. il Forc.), mellifer,
lethifer, umbrifer ec. ec. ec. ec. ec. e di cento altri simili
similmente.
(29. Gen. 1822.)
Alla p.2267. marg. Nate, patris summi qui tela
Typhoea temnis (Virg. En. 1.665.): oe dissillabo. V. gl’interpreti il Forcell. la
Regia Parnasi.
(29.
Gen. 1822.)
In
proposito di quanto ho detto altrove del Sacerdozio che presso gli antichi non
era disgiunto dalle professioni civili e militari ec. ec. nè esigeva alcun
particolar genere di vita, di modestia, ritiratezza ec. v. Virg. En. 2.318.
seqq. confrontandolo con 429-30. e soprattutto v. ib. vers. 201. e nota come i
sacerdoti si traessero a sorte dal numero de’ cittadini, de’ magistrati, de’
militari ec. e non per sempre, ma per un tal tempo, o per una sola occasione
ec. Lascio che [2368]i sacrifizi ec. privati ec. erano eseguiti da
quello stesso che offriva la vittima, come da Enea spessissimo e v. in
particolare En. 6.249-54. Fra i greci si sceglievano i sacerdoti per le
pubbliche cerimonie, feste, sacrifizi ec. fra i patrizi, e i più ricchi, che
potessero spendere ec. ed era questo un carico oneroso, come quello di fornire
una trireme ec. Alle volte esso era ereditario in certe famiglie ec. Vedi
Senofonte nel Convito c.8. §.40.
(29.
Gen. 1822.)
Tristis per cattivo all’italiana,
mi par di trovarlo nell’En. 2.548. V. gl’interpr. il Forcell. il Gloss. ec.
(29.
Gen. 1822.)
Alla
p.1154. marg. principio. Anche dalla prima coniugazione si fecero tali
contrazioni ne’ participii in us e ne’ supini, togliendo l’a di atus,
o atum, o fosse che detti participii o supini contratti, si fossero
prima ridotti alla desinenza di itus come domitus ec. P.e. partus
(quando non viene da pario) è mera contrazione di paratus, e non
già un traslato, come dice il Forcellini. Il che si vede chiaro per gli esempi
che egli adduce, ma molto più per questo (ch’egli omette) dell’En. 2.784.
(vedilo) [2369]dove parta, non vuol dir neppure comparata,
acquisita, it. procacciata ec. come spiega partus il
Forcell. ma semplicissimamente parata, giacchè non solo non era ancora
acquistata nè procacciata, ma doveva costare lunghissime, e innumerabili, e
grandissime fatiche e rischi il guadagnarla, come poi dice Virgilio tante altre
volte, e di queste fatiche e rischi fa tutto il soggetto dell’Eneide: la quale
sarebbe finita in quel passo, se parta volesse dire guadagnata.
Noi
diciamo fare una cosa di buona gana, cioè alacriter. Presso gli
spagnuoli gana vale alacritas. Gli scrittori latini non hanno
parola da cui questa si possa derivare. E pure dove credete che rimonti la sua
origine? Alle primissime sorgenti delle due lingue sorelle latina e greca. G‹now in greco vuol dire laetitia, gaudium, voluptas. V.
il Lessico co’ suoi derivati. Come dunque questa voce nostra e spagnuola,
volgarissima in ambo le lingue, anzi plebea, nè degna della scrittura
sostenuta, può esser mai derivata dal greco? quando ne’ tempi barbari in cui
nacquero tali lingue, [2370]appena si sapeva in Italia o in Ispagna che
vi fosse al mondo una lingua greca? come può esser venuta questa voce se non
dal volgare latino, e per mezzo di esso?
Non basta. Questa radice, non
solo è delle antichissime nella lingua greca, ma di quelle che s’avevano per
antiquate negli stessi antichi tempi della greca letteratura. V. il Simposio di
Senofonte, c.8. §.30, dove ricerca l’etimologia del nome di Ganimede e per
provare che Ganu, viene da una radice che
significa godimento, diletto, ec. ricorre ad Omero. Dunque al
tempo di Senofonte, ell’era già disusata, e certo non era volgare, quantunque
ella si trovi anche in alcuni pochi autori o contemporanei o posteriori a lui:
il che non dee far maraviglia perchè l’imitazione di Omero durò sempre nella
poesia greca; le sue parole e la sua lingua furono sempre tenute proprie d’essa
poesia; oltre che il poeta usa senza biasimo molte parole antiquate per più
ragioni che ve l’autorizzano, ed anche glielo prescrivono. Ora questa voce (e
suoi derivati) non si trova quasi che ne’ poeti, e si può dir poetica. Così
durano fra [2371]nostri scrittori, e massime poeti, molte parole ec. di
Dante, disusate nel resto ec. E dal luogo di Senofonte si vede che quella voce
era sin d’allora in Grecia, quel che sarebbe fra noi una voce detta dantesca.
Quest’antichissima
radice, non riconosciuta dagli scrittori latini, come mai vive oggi in due volgari
derivati da una lingua sorella della greca? Dunque ella fu propria della
lingua latina fino da’ suoi principii, cioè da quando ebbe comune origine colla
greca (non dopo, 1. perchè già divenuta fuor d’uso tra’ greci, così che il
volgo romano non potè da essi prenderla, il che sarebbe già inverosimile per
se; e come avrebbe potuto prender dai greci una voce poetica? 2. perchè non si
trova negli scrittori latini, i quali, e non il volgo, furono coloro che poi
massimamente grecizzarono il latino). Dunque d’allora in poi il volgare latino
la conservò fino all’ultimissimo suo tempo, e fino a lasciarla nelle bocche del
moderno popolo italiano e spagnuolo dove ancora rimane. Dunque ecco anche un’altra
prova che la lingua latina fosse più tenace della sua remotissima antichità che
la greca, dove questa voce ec. era uscita d’uso al tempo [2372]già di
Senofonte.
E perchè
non resti dubbio che il nostro gana sia tutt’una radice col greco g‹now, se non bastasse l’identità delle lettere radicali, e la quasi identità
del significato, osserveremo che ¤pig‹nnumai significa insulto. La
preposizione ¤pÜ in composizione spessissimo risponde alla
latina in (come appunto insilire, o insultare nel senso di
saltar sopra, risponde ad ¤f‹llomai). Ora il nostro ingannare,
(spagn. engañar) se derivi da ingenium (v. il Dufresne in ingenium
1.) o da gannare non voglio ora asserirlo. Certo è che gannare (onde
gannum ec. che v. nel Dufresne), voce conosciuta solamente nella barbara
latinità, significò irridere ec. Ed osservare che appunto illudere
illusione ec. che significa primitivamente lo stesso, passò poi,
specialmente presso i francesi, a significare assolutamente inganno, errore
ec. V. il Forcell. e il Gloss. Gannare vien dunque da gana, e ne
viene come ¤pig‹nnusÕai da g‹now, e con lo stesso significato. (Non
so se ganar gagner ec. possano aver niente a fare col proposito.
V. il Gloss. ec.).
Ecco
dunque queste due parole, l’una latino-barbara, cioè gannare, l’altra
vivente e popolare italiana [2373]e spagnuola, d’ambe le quali, non solo
non si sarebbe creduto che fossero antiche, e de’ più buoni tempi, ma si
sarebbe penato a congetturare l’etimologia; dimostrate non solo non moderne,
non solo non derivate da’ tempi barbari, ma identiche con una radice antichissima
che si trova nell’antichissimo greco, che nel greco de’ buoni secoli era già
fatta antiquata, che non potè passare nel latino, donde solo potè venir sino a
noi e al nostro volgo, se non da quando nacque il latino da una stessa origine
col greco, e che perduta nel latino scritto, si è conservata perennemente nel
volgare, in modo che oggi la nostra plebe usa familiarmente una radice ch’era
già poetica, e però già divisa dal volgo, sino dal tempo del più antico
scrittore profano che si conosca, cioè di Omero. Tanta è la tenacità del volgo,
e tanto sono antiche tante cose e parole che si credono moderne, perciò appunto
che l’eccesso della loro antichità nasconde affatto la loro origine, e l’uso
che anticamente se ne fece. E quindi potete argomentare [2374]quante
voci frasi ec. latino-barbare, o italiane, francesi o spagnuole, della cui
origine non si sa nulla, e si credono moderne o di bassa età, perchè solo ne’
moderni o ne’ bassi tempi e monumenti si trovano, si debbano stimare
appartenenti all’antichissima fonte de’ nostri volgari e del latino-barbaro,
cioè all’antico latino, e quindi al latino volgare ch’è il solo mezzo per cui i
nostri volgari comunicano colla detta antichissima fonte: e ciò quantunque in
ordine a esse parole e frasi non si possa dimostrare, appunto a causa della
troppo loro antichità, che conservandole ne’ volgari o greci o latini, le bandì
dalle scritture. Come vediamo fra noi molte antichissime parole italiane vivere
nella plebe di questa o quella parte d’Italia, e non esser più ricevute nelle
scritture.
Alla
p.2328. fine. (Così l’Alamanni, Coltivaz. lib.6. v.416-7. O se l’ingorde
folaghe intra loro Sopra il secco sentier VAGANDO STANNO.). Ed è ben
ragione perocchè il verbo essere è di sua natura in tutte le lingue
applicabile a qualsivoglia [2375]cosa, qualità, azione ec. Ora il verbo stare è sostanzialmente e originariamente continuativo di essere (in latino in
italiano in ispagnuolo), e partecipa della di lui natura, e viene al caso ogni
volta che s’ha da significare continuazione o durata di qualunque cosa è.
Osservate i latini, osservate Virgilio e vedrete che laddove essi congiungono
il verbo stare co’ nomi addiettivi, o co’ participii d’altri verbi, esso
verbo non tanto significa stare in piedi, ec. quanto continuazione o
durata di ciò ch’è significato da’ detti nomi o participii. Talia perstabat
memorans (En. 2.650.), Stabant orantes ec. (En. 6.313.). Mi ricordo
anche di altri luoghi di Virgilio dove ciò ch’io dico è anche più manifesto, e
l’uso del verbo stare si rassomiglia più decisamente a quello che noi e
gli spagnuoli ne facciamo co’ gerundii. V. gl’interpr. e il Forcell.
(31.
Gen. 1822.)
Alla
p.980. marg. Questi tali nomi passarono nell’italiano alla desinenza in chia
o chio, nello spagnuolo in ja o jo, nel francese in eille
o eil, o ouille ec. perchè prima invece di culus furono
pronunziati clus. (oclus ec.) (così da avunculus [2376]oncle).
Giacchè il cl fu da noi trasmutato quasi sempre in chi, come
quello di claudere o cludere, (v. p.2283) clericus, clavis,
clavus ec. Così il gulus o gula prima in glus, poi
in ghio ec. Unghia ec. (franc. ongLE.) Così stipula si
disse prima stipla, poi stoppia ec. V. il Gloss. ec. Così gli
stessi latini, massime i poeti solevano contrarre siffatte voci, come periclum
ec. maniplum (Virg. Georg. 3.297.) ec.
(31.
Gen. 1822.)
È
costume massimamente italiano di elidere e togliere il c dalle parole
latine, specialmente e per esempio avanti il t. Ora anche gli antichi ed
ottimi scrittori e monumenti usano spesse volte lo stesso in molte parole,
dicendo p.e. artus per arctus (dove il c è radicale,
perchè arctus fu da principio arcitus, participio di arcere),
ec. v. p.1144. se vuoi. (nel Virg. dell’Heyne trovi sempre artus, mai arctus)
autor per auctor, autoritas ec. V. il Cellar. il Forcell.
l’Ortograf. del Manuzio ec. E nelle antiche iscrizioni medaglie ec. si
troveranno infiniti esempi di ciò, come dire Atium, o Atius, o Atia,
per Actium ec. ec. Il qual costume o sia buono o cattivo in riga di [2377]latinità,
e di retta ortografia (che certo in molti casi sarà cattivo, perocchè detto
modo di scrivere è incostante ma frequentissimo nelle dette iscrizioni
medaglie, ne’ codd. più antichi ec.), serve sempre a dimostrare che quel
costume che il volgo italiano ha poi adottato, e comunicato finalmente per
regola alle ottime scritture (che ne’ primi secoli della nostra lingua
adoperarono in questo e simili casi assai frequentemente l’ortografia latina),
fu antichissimo nella pronunzia del volgo o non volgo, giacchè poteva cagionare
ordinariamente tali vizi di scrittura negli amanuensi, lapidarii ec. La qual
considerazione si dee generalizzare e riferire a tutti quei casi (che son
molti) ne’ quali (o spettino all’ortografia o ad altro) gli antichi monumenti
codici ec. si trovano ordinariamente, e con decisa frequenza imbrattati d’errori che si accostano o s’agguagliano alla pronunzia o al
costume qualunque sia della lingua italiana, o delle sue sorelle ec.
[2378]Che non si dà ricordanza, nè si
mette in opera la memoria senz’attenzione. Prendete a caso uno o due o tre
versi di chi vi piaccia, in modo che possiate, leggendoli una volta sola,
tenerli tanto a memoria da poterli poi ripeter subito fra voi, il che è ben
facile in quello stesso momento che si son letti: e ripeteteli fra voi stesso
dieci o quindici volte, ma con tutta materialità, come si fa un’azione
ordinaria, senza pensarvi e senza porvi la menoma attenzione. Di lì ad un’ora
non ve ne ricorderete più, volendo ancora richiamarli con ogni sforzo. Al
contrario leggeteli solamente una o due volte con attenzione, e intenzione d’impararli,
o che vi restino impressi; ovvero poniamo caso che da se stessi v’abbiano fatto
una decisa impressione, ed eccitata per questo mezzo la vostra mente ad
attendervi, anche senza intenzione alcuna d’impararli. Non li ripetete neppure
fra voi, o ripetendoli, fatelo solo una o due volte con attenzione. Di lì a più
ore vi risovverranno anche spontaneamente, e molto più se voi lo vorrete; e se
allora di nuovo ci farete attenzione, in modo che quella reminiscenza [2379]non
sia puramente materiale, ve ne ricorderete poi anche più a lungo per un certo
tempo. Dico tutto ciò per esperienza, trovando d’essermi scordato più volte d’alcuni
versetti ch’io per ricordarmene avea ripetuto meccanicamente fra me una ventina
di volte, e di averne ritenuto degli altri ripetuti una sola o due volte, con
decisa attenzione alle parti ec. E così d’altre cose ec. E chi sa che queste o
simili osservazioni non fossero il fondamento di quell’arte della memoria che
fra gli antichi s’insegnava e si professava come ogni altra disciplina, siccome
apparisce da molte testimonianze, e fra le altre da Senofonte nel Convito c.4.
§.62.
Aggiungete.
Ciascun di noi ha qualche metodo di vita, qualche cosa ch’egli soglia fare ogni
giorno, ovvero ogni tanti giorni, a quella tal ora, in quel tal luogo,
occasione ec. Ma se questa cosa o azione ci è divenuta (come sono
necessariamente moltissime in qualunque individuo) così abituale che noi la
facciamo macchinalmente, e senza porvi più nessuna, o quasi nessuna [2380]attenzione,
spessissimo c’interverrà che anche poco dopo fatta, non ci ricordiamo se l’abbiam
fatta o no, massimamente se non vi sia nessuna circostanza o particolare,
ovvero ordinaria, ma presente ec. ec. che aiuti in quel momento la memoria, (il
che si può fare anche riandando di mano in mano le altre operazioni di quel tal
tempo, le circostanti, le conseguenze, le antecedenze; ovvero proccurando di
salire dalle più vicine alle più lontane ec.) nel qual caso probabilmente non ce
[ne] potremo ricordare in nessunissimo modo, e l’uomo della più gran memoria
del mondo sarà nella stessissima condizione. Generalmente è nulla o scarsissima
la memoria degli atti detti dell’uomo, dei quali ciascuno ne fa
giornalmente e continuamente infiniti, nè mai se ne ricorda un solo, anche
volendo, se qualche particolare impressione non l’aiuta ec. Nè solo di questi,
ma anche di quelli, che benchè non siano o propriamente o totalmente dell’uomo,
si fanno però con pochissima riflessione ed attenzione, e ponendoci poca o
nessuna importanza, di questi tali dopo pochi momenti, non ci ricordiamo o
appena ci ricordiamo del come, del quando, del perchè, del se gli abbiamo
fatti. E generalmente la memoria va sempre in ragion diretta dell’attenzione
posta non già alla ricordanza, ma a ciò ch’è il soggetto della ricordanza.
(1. Feb.
1822.)
[2381]Giovanette di 15. o poco più anni
che non hanno ancora incominciato a vivere, nè sanno che sia vita, si chiudono
in un monastero, professano un metodo, una regola di esistenza, il cui unico
scopo diretto e immediato si è d’impedire la vita. E questo è ciò che si
procaccia con tutti i mezzi. Clausura strettissima, fenestre disposte in modo
che non se ne possa vedere persona, a costo della perdita dell’aria e della
luce, che sono le sostanze più vitali all’uomo, e che servono anche, e sono
necessarie alla comodità giornaliera delle sue azioni, e di cui gode
liberamente tutta la natura, tutti gli animali, le piante, e i sassi.
Macerazioni, perdite di sonno, digiuni, silenzio: tutte cose che unite insieme
nocciono alla salute, cioè al ben essere, cioè alla perfezione dell’esistenza,
cioè sono contrarie alla vita. Oltrechè escludendo assolutamente l’attività,
escludono la vita, poichè il moto e l’attività è ciò che distingue il vivo dal
morto: e la vita consiste nell’azione; laddove lo scopo diretto della vita
monastica anacoretica ec. è l’inazione, e il guardarsi dal fare, l’impedirsi di
fare. Così che la monaca o il monaco [2382]quando fanno professione,
dicono espressamente questo: io non ho ancora vissuto, l’infelicità non mi ha
stancato nè scoraggito della vita; la natura mi chiama a vivere, come fa a
tutti gli esseri creati o possibili: nè solo la natura mia, ma la natura
generale delle cose, l’assoluta idea e forma dell’esistenza. Io però conoscendo
che il vivere pone in grandi pericoli di peccare, ed è per conseguenza
pericolosissimo per se stesso, e quindi per se stesso cattivo (la
conseguenza è in regola assolutamente), son risoluto di non vivere, di fare che
ciò che la natura ha fatto, non sia fatto, cioè che l’esistenza ch’ella mi ha
dato, sia fatta inutile, e resa (per quanto è possibile) nonesistenza. S’io
non vivessi, o non fossi nato, sarebbe meglio in quanto a questa vita presente,
perchè non sarei in pericolo di peccare, e quindi libero da questo male
assoluto: s’io mi potessi ammazzare sarebbe parimente meglio, e condurrebbe
allo stesso fine; ma poichè non ho potuto a meno di nascere, e la mia legge mi
comanda di fuggir la vita, e nel tempo stesso mi vieta di terminarla, ponendo la
morte volontaria fra gli altri peccati per cui la vita [2383]è
pericolosa, resta che (fra tante contraddizioni) io scelga il partito ch’è in
poter mio, e l’unico degno del savio, cioè schivare quanto io posso la vita,
contraddire e render vana quanto posso la nascita mia, insomma esistendo
annullare quanto è possibile l’esistenza, privandola di tutto ciò che la
distingue dal suo contrario e la caratterizza, e soprattutto dell’azione che
per una parte è il primo scopo e carattere ed uffizio ed uso dell’esistenza,
per l’altra è ciò che v’ha in lei di più pericoloso in ordine al peccare. E se
con ciò nuocerò al mio ben essere, e mi abbrevierò l’esistenza, non
importa; perchè lo scopo di essa non dev’esser altro che fuggir se medesima,
come pericolosa; e l’essere non è mai tanto bene, quanto allorchè
in qualunque maggior modo possibile è lontano dal pericolo di peccare, cioè
lontano dall’essere e dall’operare ch’è l’impiego dell’esistenza.
Questo è
il discorso di tali persone. E questo raziocinio, e la risoluzione che ne
segue, e la vita che le tien dietro, sono assolutamente e dirittamente nello
spirito del Cristianesimo, e inerenti alla [2384]sua perfezione. Lo
scopo di essa e dell’essenza del Cristianesimo, si è il fare che l’esistenza
non s’impieghi, non serva ad altro che a premunirsi contro l’esistenza: e
secondo essa il migliore, anzi l’unico vero e perfetto impiego dell’esistenza
si è l’annullarla quanto è possibile all’ente; e non solo l’esistenza non dev’essere
il primo scopo dell’esistenza nell’uomo (come lo è in tutte le altre cose o
create, o anche possibili), ma anzi il detto scopo dev’essere la nonesistenza.
Assolutamente nell’idea caratteristica del Cristianesimo, l’esistenza ripugna e
contraddice per sua natura a se stessa.
Alla
p.2330. Altra prova. I nomi delle cose che sogliono esser denominate prima d’ogni
altra in qualsivoglia lingua, nel latino, se bene osserverete, sono o
monosillabi, o tali che facilmente se ne scuopre una radice di non più che una
sillaba. Segno evidente di conservata antichità, e questa remotissima e
primitiva. Non così, o non sì spesso in greco, dove sovente i detti nomi non
sono monosillabi, nè se ne può trarre una [2385]radice monosillaba. Dies²m¡ra, vir
Žn¯r ec. sol ´liow, lun-a sel®ne. Forse non poche volte, se quella parola che nella grecità conosciuta è
rimasta in uso, non è monosillaba, lo sarà però un’altra equivalente, che si
trova solo in Omero, o ne più antichi o ne’ poeti, o che si conosce per
congettura; che in somma a’ buoni e perfetti tempi della lingua greca era già
disusata e antiquata almeno nel linguaggio comune. Ma questa medesima è un’altra
prova anche più materiale che la lingua latina fosse più tenace della sua
antichità.
(2. Feb.
1822.)
Alla
p.2281. marg. fine. Questo mischiare non viene certo da mescolare
ma da misculari latino immediatamente 1. perchè non diciamo miscolare (nè i franc. mîler o misler, nè gli spagn. mizclar)
laddove i latini doverono certo dir così, e vedendosi che la i cambiata
nel mescolare in e s’è conservata nel mischiare, ciò non
può procedere da altra ragione che dalla sua origine latina. 2. perchè è
costume bensì dell’idioma italiano il cangiare in chi il latino cul,
(v. p.2375.) non così però di cangiare l’italiano col. Così che mischiare
[2386]denota un misculare o i latino, dal quale
necessariamente dev’essere stato preceduto. Questa 2. ragione vale anche per meschiare
altra corruzione di mischiare, cioè cambiato poi l’i in e,
come in mescolare mezclar ec.
Alla
p.2324. sul principio. V. pure il Forcell. in montuosus il quale inclino
a credere che possa dinotare un vecchio ed antiquato, o popolare e corrotto dal
volgo montus us. V. il Gloss. se ha nulla.
(3. Feb.
1822.)
Stimabile
è la menzogna quando giova a chi la dice e a chi l’ode non fa nocumento. Parole in persona di Cariclea
fanciulla greca, presso Eliodoro Delle cose Etiopiche Libro Primo
tradotto dal Gozzi, Opere, Venez. Occhi. 1758. t.6. p.92.
La
lingua italiana ha un’infinità di parole ma soprattutto di modi che nessuno ha
peranche adoperati. - Ella si riproduce illimitatamente nelle sue parti. Ella è
come coperta tutta di germogli, e per sua propria natura, pronta sempre a
produrre nuove maniere di dire. - Tutti i classici o buoni scrittori crearono
continuamente nove frasi. Il vocabolario ne contiene la menoma parte: e per
verità il frasario di un solo [2387]di essi, massime de’ più antichi ec.
formerebbe da se un vocabolario. Laonde un vocabolario che comprenda tutti i
modi di dire, ottimi e purissimi, adoperati da’ classici italiani, e dagli
stessi soli testi di lingua, sarebbe impossibile. Quanto più uno che
comprendesse tutti gli altri egualmente buoni che sono stati usati, o che si
possono usare in infinito! Usarli dico e crearli nuovamente, e nondimeno con
sapore e natura tutta antica: anzi non la moderna, ma la sola antica lingua
italiana possiede ed è capace di questa fecondità. - Deducete da ciò l’ignoranza
di chi condanna quanto non trova nel Vocabolario. E concludete che la novità de’
modi è così propria della lingua italiana, e così perennemente ed
essenzialmente, ch’ella non può conservare la sua forma antica, senza
conservare in atto la facoltà di nuove fogge.
eb.1822
Ni
sabian que pudiesse haver sacrificio sin que muriesse alguno por la salud de
los demàs. Parole
di Magiscatzin, vecchio Senatore Tlascalese a Ferdinando Cortès, presso D.
Antonio de Solìs, Hist. de la Conquista de Mexico, lib.3. capit.3. [2388]en
Madrid 1748. p.184. col.1. Ecco l’origine e la primitiva ragione de’ sacrifizi,
e idea della divinità. Si stimava invidiosa e nemica degli uomini, perchè gli
uomini lo erano per natura fra loro, e per causa delle tempeste ec. le quali
appunto si cercava di stornare co’ sacrifizi. Nè si credeva già primitivamente
che gli Dei godessero materialmente godessero della carne o sangue o altro che
loro si sacrificava, ma della morte e del male della vittima, e che questo
placasse l’odio loro verso i mortali, e la loro invidia. Egoismo del timore,
che ho spiegato in altro luogo. Quindi si facevano imprecazioni ed esecrazioni
sulla vittima, che non si considerava già come cosa buona, ma come il soggetto
su cui doveva scaricarsi tutto l’odio degli Dei, e come sacra solo per questo
verso. Quindi quando il timore (o il bisogno, o il desiderio ec.) era maggiore,
si sacrificavano uomini, stimando così di soddisfar maggiormente l’odio divino
contro di noi. E ciò avveniva o tra’ popoli più vili e timidi (e quindi più
fieramente egoisti), o più travagliati dalle convulsioni degli elementi (com’erano
i Tlascalesi ec.), o ne’ tempi più antichi, [2389]e quindi più
ignoranti, e quindi più paurosi. E nell’estrema paura, si sacrificavano non
solo prigionieri, o nemici, o delinquenti ec. come in America, ma compatrioti,
consanguinei, figli, per maggiormente saziare l’odio celeste, come Ifigenia ec.
Eccesso di egoismo prodotto dall’eccesso del timore, o della necessità, o del
desiderio di qualche grazia ec.
Nè fra
gli antichi, nè fra’ popoli poco civilizzati fu mai che il popolo conquistato s’avesse
per compatriota del conquistatore, come oggidì.
Alla
p.2338. Ho detto delle contraddizioni naturali che occorrono fra quegli oggetti
che il presente stato dell’uomo gli rende necessarii anche nell’agricoltura ec.
Aggiungo che di quegli stessi animali ch’egli nodrisce, molti sono nemici fra
loro per natura, e si danneggiano scambievolmente quando non ci si provveda, o
che lo facciano volontariamente, o anche involontariamente per fisiche
disposizioni, senza esser nemiche ec. come le galline nuocciono ai buoi.
[2390]L’attenzione de’ fanciulli è scarsa
1. per la moltitudine e forza delle impressioni in quell’età, conseguenza
necessaria della novità ed inesperienza: le quali impressioni tirando
fortemente l’attenzione loro in mille parti e continuamente, l’impediscono di
esser sufficiente in nessuna: e questa è la distrazione che s’attribuisce ai
fanciulli, tanto più distratti, quanto più suscettibili di sensazioni vive e
profonde: 2. perchè anche la facoltà di attendere non si acquista senz’assuefazione
ec.: 3. perchè la natura ha provveduto in modo che fin che l’uomo è nello stato
naturale, come sono i fanciulli, poco e insufficientemente attende, essendo l’attenzione
la nutrice della ragione, e la prima ed ultima causa della corruzione ed
infelicità umana.
(16.
Feb. 1822.)
Della
convenienza di conservare agli scrittori la facoltà di fabbricar nuove parole e
modi sopra le forme già proprie della lingua, cioè sopra le varie facoltà per
le quali essa n’ha prodotto degli altri di quel tal genere, vedi un bello ed
espressivo luogo del Caro, Apologia, Parma 1558. p.52. dopo aver parlato delle
voci Suo merto et tuo valore nel Predella, prima di entrare nelle
opposizioni numerate.
[2391]Ma nulla fa chi troppe cose pensa.
Tasso Aminta, Atto 2. scena 3. v. ult.
I muti
hanno essi la facoltà della favella? No certo. Eppur quanto alla favella
n’hanno tutta la disposizione naturale quanta n’ha il miglior parlatore
del mondo. Ma questa non è altro che possibilità, la quale il muto non
riduce mai all’atto e non adopera in verun modo, perchè non avendo udito, non
impara dagli altri (cioè non si avvezza) a farlo, e coll’assuefazione, di cui
non ha il mezzo, non acquista la facoltà. Ecco che cosa sono tutte le pretese
facoltà naturali ed ingenite nell’uomo. E qual si crede più naturale della
favella? principal caratteristica dell’uomo, e suo maggior distintivo dai
bruti.
(20.
Feb. 1822.)
Cogliere (che anche si dice corre) e
coger non sono altro che colligere; scegliere (anche scerre)
ed escoger dimostrano un excolligere latino detto volgarmente a
preferenza e in vece di eligere 1. perchè la preposizione ex della quale sono composti questi due verbi moderni non significa niente in
queste due lingue (oltre ch’ella è qui sfigurata in modo che anche [2392]significando
per se, non significherebbe nulla in questi casi, non essendo più lei) bensì in
latino. 2. perchè questi due verbi sono tanto simili che dimostrano l’unità
dell’origine, e tanto diversi fra loro che danno ad intendere di non esser
derivato nessuno di essi due dall’altro.
Alla
p.2304. vedi un luogo notabile di Francesco da Buti comentatore ms. di Dante,
presso la Crusca v. Strega.
Asseriscono
che la natura ha data espressamente all’uomo la facoltà di perfezionarsi, e
voluto che l’adoprasse, e però non ha provveduto a lui del necessario così bene
come agli altri animali, anzi glien’ha mancato anche nel più essenziale. E da
questa facoltà vogliono che l’uomo sia tenuto per superiore e più perfetto
degli altri esseri. 1. Vi par questa una bella provvidenza? Dare all’uomo la
facoltà di perfezionarsi, cioè di conseguire la felicità propria della sua
natura; ma frattanto perchè questa perfezione non si poteva conseguire se non
dopo lunghissimo spazio di tempo, e successione d’infinite esperienze, [2393]fare
decisamente, e deliberatamente infelici un grandissimo numero di generazioni,
cioè tutte quelle che dovevano essere innanzi che questa perfezione propria
dell’esser loro, e non per tanto difficilissima e remotissima, si potesse
conseguire, come ancora non possono affermare che si sia fatto. E per rispetto
di questa medesima facoltà di perfezionarsi, di questo dono, di questo massimo
privilegio dato dalla natura alla specie umana, mancare alla medesima del
necessario, quando era evidente che questa facoltà non avrebbe avuto effetto, e
non avrebbe potuto supplire al preteso mancamento della natura verso di noi, se
non dopo lunghissimo tempo, e dopo che moltissime generazioni avrebbero dovuto,
a differenza di tutti gli altri esseri, sentire e sopportare il detto
mancamento, e l’infelicità che risulta dal non essere nello stato proprio della
propria natura. In verità che questo, se fosse vero, mostrerebbe una gran
predilezione della natura verso di noi, e gran superiorità nostra sugli altri
esseri. 2. Non essendo la perfezione altro [2394]che l’essere nel modo
conveniente alla propria natura, e tutti gli animali e le cose essendo così,
tutte sono perfette nel loro genere, e ciò vuol dire che son perfette
assolutamente, non potendo la perfezione considerarsi fuori del genere di cui
si discorre. La natura dunque (giacchè gli animali e le cose non hanno acquistata
questa perfezione da loro, e sono in tutto secondo natura) ha fatto gli animali
e le cose tutte perfette. L’uomo solo, secondo voi, l’ha fatto perfettibile.
Bella superiorità e privilegio. Dare agli altri il fine, a voi il mezzo; a
tutti la perfezione, a voi non altro che il mezzo di ottenerla. E di più un
mezzo o inefficace e quasi illusorio, o così poco efficace, che, lasciando gl’infiniti
ostacoli, e l’immenso spazio di tempo che s’è dovuto passare prima di ridurci
allo stato presente, in questo ancora non possiamo esser tanto arditi nè
sciocchi da darci per perfetti (che vorrebbe dir felici, quando siamo il
contrario): e oltre a questo non sappiamo quando lo potremo essere: anzi non
possiamo congetturar neppure in che cosa potrà consistere la nostra [2395]perfezione
se mai s’otterrà: e per ultimo, se parliamo da vero, siamo o dobbiamo essere
omai più che persuasi, che la detta perfezione, qualunque ce la figuriamo, non
s’otterrà mai, e non diverremo mai più felici. E pur gli animali lo sono dal
principio del mondo in poi, senza essersi mossi dalla natura. Ecco la
superiorità naturale su tutti gli esseri, che si scopre in noi mediante la
bella e generale supposizione della nostra perfettibilità.
P‹nta gŒr ŽgaJŒ m¢n kaÜ kal‹ ¤sti pròw ‘ ’n eï ¦Xú: kakŒ d¢ kaÜ aÞsXrŒ pròw ’n kakÇw. Quippe omnia bona sunt ac
pulcra, ad quae bene se habent; mala vero ac turpia, ad quae male.
Leunclav. Parole di Socrate ad Aristippo appresso Senofonte 'Apomnhmoneum‹tvn bibl. gƒ. kef. 8. §.7.
Nelle
scritture de’ moderni puristi italiani (p.e. del Botta) per lo più si vede
chiaramente un moderno che scrive all’antica, e quindi non ha la grazia dello
scrivere antico, non avendone lo spontaneo. Una delle due, o s’ha da parere un [2396]antico
che scriva all’antica, vale a dire che questo scrivere paia naturale dello
scrittore, e venuto da se; o s’ha da essere un moderno che scriva alla moderna:
e volendo parere un moderno, non si dee volere scrivere altrimenti, se si vuol
fuggire il contrasto ridicolo e l’affettazione; e molto meno volendo scriver
cose moderne, e pensieri di andamento moderno (cioè insomma propri dello
scrittore, che mentre vive non sarà mai antico): le quali cose e i quali
pensieri, da che mondo è mondo, in qualsivoglia nazione non si sono scritti nè
potuti scrivere in altra lingua che moderna (perchè questa sola è loro
connaturale, e perciò sola dà il modo di bene e pienamente esprimerli), e non
altrimenti che alla moderna.
Quando
mai, se si potesse, dovressimo, quanto allo stile, parere antichi che
pensassero alla moderna. Laddove nei nostri accade tutto il contrario.
Il
P. Dan. Bartoli è il Dante della prosa italiana. Il suo stile in ciò che spetta
alla lingua, è tutto a risalti e rilievi.
Domandato
se credesse che la morte d’alcuno fosse stata pianta da vero, affermò, portando
per esempio quella di Bartolommeo Cacciavolpe, ch’era vissuto [2397]di
beni d’usufrutto, e di pensioni (assegnamenti) a vita, e morto pieno di debiti.
Decia
(Motezuma), que no era crueldad ofrecer à sus Dioses unos Prisioneros de
Guerra, que venian yà condenados à muerte; no hallando razon, que le
hiciesse capaz de que fuessen proximos los Enemigos. D. Antonio de Solìs,
Hist. de la Conquista de Mexico, lib.3. capitulo 12. en Madrid año de 1748.
p.230. col.2.
(25.
Marzo, dì dell’Annunziazione di M. V. SS. 1822.)
Il
Vocab. della Crusca non ha interi due terzi delle voci, o significati e vari
usi loro, e nè pure un decimo dei modi di quegli stessi autori e libri che
registra nell’indice. E questi non sono appena una terza o quarta parte di
quegli autori e libri italiani de’ buoni secoli che secondo ogni ragione vanno
considerati e sono autentici nella lingua, anche nella pura lingua antica.
Aggiungeteci ora i libri moderni bene scritti, e le voci e modi che usati o non
usati ancora da buoni scrittori, sono necessarissimi a chi vuole scriver [2398](com’è
dovere) delle cose presenti, e a’ presenti o futuri, massime le spettanti alle
scienze immateriali o materiali, e che tutti mancano al Vocabolario; si può far
ragione che questo non contenga più d’una quarantesima parte della lingua
italiana in genere (a dir molto); e non più d’una trentesima dell’antica in
particolare, ossia di quella che s’ha per classica. Del che non si può far
carico ai compilatori, se non quanto alle mancanze relative agli autori de’
quali professano d’aver fatto spoglio e formatone il vocabolario. Perchè del resto
nessuna lingua viva ha, nè può avere un vocabolario che la contenga tutta,
massime quanto ai modi, che son sempre (finch’ella vive) all’arbitrio dello
scrittore. E ciò tanto più nell’italiana (per indole sua). La quale molto meno
può esser compresa in un vocabolario, quanto ch’ella è più vasta di tutte le
viventi: mentre veggiamo che nè pur la greca ch’è morta, s’è potuta mai
comprendere in un Vocabolario nè men quanto alle voci, che ogni nuovo
scrittore, ne porta delle nuove. [2399]Molto meno quanto ai modi ne’
quali ell’è infinita e a disposizione degli scrittori, come appunto la nostra,
e ciascuno scrittor greco ne forma de’ nuovi a suo piacere, e in gran numero.
Or non è cosa ridicolissima che mentre nessun’altra nazione stima che la sua
lingua sia determinata e prescritta dal suo vocabolario, non ostante che questo
sia molto meglio fatto, molto più esteso (relativamente) del nostro, e che la
lingua loro possa più facilmente o meglio esser compresa in un vocabolario; noi
la cui lingua è impossibile (sopra qualunque altra) che vi si possa
comprendere, che di più, abbiamo un vocabolario inesattissimo nelle cose stesse
che porta, molto più inferiore alla ricchezza della nostra lingua di quello che
le convenga o se le debba perdonare di essere, fatto sopra un piano sopra cui
nessun altro è fatto, cioè sopra il piano dell’antico, mentre noi siamo
moderni, e della pura autorità quando la lingua è viva; noi dico vogliamo che
un vocabolario così ridondante d’imperfezioni, e poco proprio della lingua
nostra (e d’ogni lingua viva), abbia su di questa una virtù, un’autorità e un
dominio, che i più perfetti vocabolari delle altre nazioni (anche nazioni unite
come la francese e l’inglese) nè si arrogano, nè sognano, nè pensano che [2400]sia
menomamente proprio dell’essenza loro, nè compatibile colla natura delle lingue
vive, e che nessuno s’immagina mai di riconoscere in essi.
P‹lin d¢ ¢pvtÅmenow (Socrate), ² ŽndreÛa pñteqon eàh didaktòn µ fusikòn; oimai men, ¦fh, Ësper sÇma sÅmatow ioxurñteron pròw toçw pñnouw fæetai, oìtv kaÜ cux¯n cux°w ¤r=vmenest¡ran pròw tŒ deinŒ fæsei gÛgnesJai. „OrÇ gŒr ¤n toÝw aétoÝw nñmoiw te kaÜ ¦Jesi trefom¡nouw polæ diaf¡rontaw Žll®lvn tñlmú. NomÛzv m¡ntoi psan fæsin maJ®sei kaÜ mel¡tú pròw ŽndreÛan aëjesJai. Xenof. Žpomnhm. b.g.ƒ kef. J.ƒ §. aƒ-bƒ. Così possiamo discorrere di tutto
il resto.
Estaban
persuadidos (los Mexicanos) à que no huvo Dioses de essotra parte del Cielo
(cioè che non ci ebbe altri Dei se non un solo che tra essi non avea nome, ma s’aveva
per superiore a tutti, e se gli attribuiva la creazione del Cielo e della
Terra, e davasegli sede in cielo), hasta que multiplicandose los hombres,
empezaron sus calamidades; considerando los Dioses como unos genios
favorables, que se producian, quando era necessaria su operacion; sin hacerles
dissonancia (à los Mexicanos), que adquiriessen el Sèr (estos Dioses), y la
Divinidad en la miserias de la Naturaleza. Don Antonio de Solìs, Hist. de la
Conquista de Mexico, lib.3. capitulo 17. en Madrid, año de 1748. p.259. col. 1.
Non è da
far mai pompa della propria infelicità. La sola fortuna fa fortuna tra gli
uomini, e la sventura non fu mai fortunata; nè si può far traffico, e ritrarre utilità
dalla miseria, quando ella sia vera. Nessuno fu mai più stimato o più gradito
per esser più infelice degli altri. E però allo sventurato, volendo esser bene
accolto ed accetto, o [2402]farsi tenere in pregio, non solamente
conviene dissimulare le proprie disgrazie, ma fingersi del numero de’
fortunati, pretendere a questo titolo, combatter la fama o chiunque glie lo
neghi, e mettere ogni studio per ingannar gli altri in questo punto.
Intorno
alla gelosia che avevano i romani della preminenza della loro lingua sulla
greca, vedi Dione p.946. nota 86.
(23.
Aprile 1822.)
Di
quelli che non avendo mani, supplirono all’ufficio loro coi piedi, v. Dione
Cassio l.54. c.9. p.739. e quivi la nota 91.
La
natura vieta il suicidio. Qual natura? Questa nostra presente? Noi siamo di
tutt’altra natura da quella ch’eravamo. Paragoniamoci colle nazioni naturali, e
vediamo se quegli uomini si possono stimare d’una stessa razza con noi.
Paragoniamoci con noi medesimi fanciulli, e avremo lo stesso risultato. L’assuefazione
è una seconda natura, massime l’assuefazione così radicata, così lunga, e
cominciata in sì tenera età, com’è quell’assuefazione (composta d’assuefazioni
infinite e diversissime) che ci fa esser tutt’altri che uomini naturali, o
conformi alla prima natura dell’uomo, e alla natura generale degli esseri
terrestri. [2403]Basti dire che volendo con ogni massimo sforzo
rimetterci nello stato naturale, non potremmo, nè quanto al fisico, che non lo
sopporterebbe in verun modo, nè posto che si potesse quanto al fisico ed
esternamente, si potrebbe quanto al morale ed internamente; il che viene ad
esser tutt’uno, non potendo noi esser più partecipi della felicità destinata
all’uomo naturalmente, perchè l’interno nostro, che è la parte principale di
noi, non può tornar qual era, per nessuna cagione o arte. Che ha dunque a fare
in questa quistione del suicidio, e in ogni altra cosa che ci appartenga, la
legge o l’inclinazione di una natura, che non solo non è nostra, ma anche
volendo noi e proccurandolo per ogni verso, non potrebbe più essere? Il punto
dunque sta qual sia l’inclinazione e il desiderio di questa seconda natura, ch’è
veramente nostra e presente. E questa invece d’opporsi al suicidio, non può far
che non lo consigli, e non lo brami intensamente: perchè anch’ella odia
soprattutto l’infelicità, e sente che non la può fuggire se non colla morte, e
non tollera che la tardanza di questa allunghi i suoi patimenti. [2404]Dunque
la vera natura nostra, che non abbiamo da far niente cogli uomini del tempo di
Adamo, permette, anzi richiede il suicidio. Se la nostra natura, fosse la prima
natura umana, non saremmo infelici, e questo inevitabilmente, e
irrimediabilmente; e non desidereremmo, anzi abborriremmo la morte. (29.
Aprile, 1822.). La natura nostra presente è appresso a poco la ragione. La
quale anch’essa odia l’infelicità. E non v’è ragionamento umano che non
persuada il suicidio, cioè piuttosto di non essere, che di essere infelice. E
noi seguiamo la ragione in tutt’altro, e crederemmo di mancare al dover di uomo
facendo altrimenti.
Alla
p.1287. principio. Io son certo che gli antichi orientali, o i primi inventori
dell’alfabeto, non s’immaginarono che i suoni vocali fossero così pochi, e
tanto minori in numero che le consonanti. Anzi dovettero considerarli come
infiniti, vedendo ch’essi animavano, per così dire, tutta la favella, e
discorrevano incessantemente per tutto il corpo di essa, come il sangue per le
vene degli animali. O pure, (e questo credo piuttosto) non li considerarono
neppure come suoni, ma come suono individuo, e questo infinito e
indeterminabile e indivisibile, come appunto immaginarono gli antichi filosofi
quello spirito animator del tutto che totam agitat molem, et toto se corpore
miscet. Ed è verisimile che l’idea di rappresentare i suoni vocali col
mezzo de’ punti (alieni affatto, e avventizi alla [2405]scrittura
ebraica) non venisse (così tardi) in mente ai rabbini, se non per la pratica
che aveano contratta delle lingue occidentali, diffuse nell’Asia da gran tempo
ec. oltre che i medesimi ebrei s’erano già sparsi da gran tempo per l’occidente,
o per paesi dove correvano le lingue occidentali. Par che gli antichi ebrei
considerassero le vocali come spiriti, o come inseparabili dalle consonanti
(p.e. a, d ec.) laddove le consonanti per lo contrario sono
inseparabili dalle vocali. Ma la sottigliezza e la spiritualità, e il
continuo uso del suono vocale nella favella, impedivano loro di considerarlo
nelle sue parti, se non come legato colle consonanti, o colle aspirazioni che
rendevano la vocale più aspra, più notabile, piùcorporea, e quasi la
trasmutavano in consonante, ovvero esse stesse eran come consonanti, legate
necessariamente a questo o quel suono vocale; p.e. l’aspirazione a al solo suono
dell’a, non comportando forse un’altra vocale, quella tal razza di
aspirazione ec.
Essendo
vissuto lunghissimo tempo in città piccola, e fra gente lontanissima da quel
che si chiama buon tuono, e spirito di mondo, quantunque io non abbia più che
tanta pratica della così detta buona società, mi par nondimeno [2406]di
avere in mano bastanti comparazioni per potere affermare che ne’ paesi piccoli,
e fra gli uomini e le società di piccolo spirito, si apprende assai più della
natura umana, e sì del carattere generale, sì de’ caratteri accidentali degli
uomini, di quello che si possa fare nelle grandi città, e nella perfetta
conversazione. Perchè, oltre che in queste gli uomini son sempre mascherati, e
d’apparenze lontanissime dalla sostanza, e dai caratteri loro individuali;
oltre che sono tanto più lontani dalla natura, e dal vero carattere generale
dell’uomo, e lo sono, non solo per finzione, ma anche per carattere acquisito;
il principale è che son tutti appresso a poco d’una forma, sì ciascuno di essi,
come ciascuna di tali società rispetto alle altre. Laonde veduto e conosciuto
un uomo solo, si può dir che tutti, poco più poco meno, sieno veduti e
conosciuti. Al contrario di quel che succede nelle città piccole, e nella piccola
società, dove non è individuo, che non offra qualche nuova scoperta circa le
qualità di cui la natura umana è capace. Maggior varietà si trova fra questi
tali uomini che nelle stesse campagne (o fra’ selvaggi, o non inciviliti ec.) [2407]perchè
gli uomini affatto o quasi affatto incolti, sono abbastanza vicini alla natura
(ch’è una qualità e un tipo generale) per rassomigliarsi moltissimo
scambievolmente, mediante la stessa natura. Questi sono simili fra loro, quelli
che sono perfettamente o quasi perfettamente colti, si può dir che sieno uguali
gli uni agli altri, in virtù dell’incivilimento che tende per essenza ad
uniformare. Lo stato di mezzo è il più vario, il più suscettivo di diverse
qualità, e il più conformabile secondo le circostanze relative e individuali.
Queste osservazioni si possono estendere, e distinguere in diversi modi. P.e.
si conosce assai meglio la natura umana e la sua capacità di forme, esaminando
un uomo volgare, che un dotto, un filosofo, uno esperimentato negli affari, o
vissuto nel gran mondo ec. ec.; assai meglio esaminando il carattere di una
società piccola, che d’una grande; assai meglio esaminando una nazione non
perfettamente colta, che una perfettamente civile (spagnuoli, tedeschi-italiani
francesi); assai meglio esaminando lo spirito di quella tal nazione civile, o
delle sue parti, lontano dalla capitale, o dal centro [2408]della
società nazionale, ch’esaminando la società di essa capitale ec. Così dico
ancora del carattere nazionale, il quale p.e. rispetto ai francesi, si
conoscerà molto meglio esaminando la società della Bretagna, o della Provenza,
che quella di Parigi.
Che la
lingua greca si conservasse incorrotta, o quasi incorrotta, tanto più tempo
della latina, e anche dopo scaduta già la latina ch’era venuta in fiore tanto
più tardi, si potrà spiegare anche osservando, che la letteratura (consorte
indivisibile della lingua) sebbene era scaduta appresso i greci, pur aveva
ancor tanto di buono, ed era eziandio capace di tal perfezione, che talvolta
non aveva che invidiare all’antica. Esempio ne può essere la Spedizione di
Alessandro, e l’Indica d’Arriano, opere di stile e di lingua così purgate, così
uguali in ogni parte e continuamente a se stesse, senza sbalzi, risalti,
slanci, voli o cadute di sorte alcuna (che sono le proprietà dello scriver
sofistico e guasto, in qualsivoglia genere, lingua, e secolo corrotto), di
semplicità e naturalezza e facilità, chiarezza, nettezza ec. così spontanea ed
inaffettata, così ricche, così [2409]proprie, così greche insomma nella
lingua, e nella maniera, e nel gusto, che quantunque Arriano fosse imitatore,
cioè quello stile e quella lingua non fossero cose naturali in lui ma
procacciate collo studio de’ Classici (come è necessario in ogni secolo dove la
letteratura non sia primitiva) e principalmente di Senofonte, non per questo si
può dire ch’egli non le avesse acquistate in modo che paiano e si debbano anzi
chiamar sue, nè se gli può negare un posto se non uguale, certo vicinissimo a
quello degl’imitati da lui. Ora il tempo d’Arriano fu quello d’Adriano e degli
Antonini, nel qual tempo la letteratura latina, con tutto che fosse tanto meno
lontana della greca dal suo secol d’oro, non ha opera nessuna che si possa di
gran lunga paragonare a queste d’Arriano ne’ suddetti pregi, come anche in
quelli d’una ordinata e ben architettata narrazione, e altre tali virtù dello
scriver di storie. Tacito fu alquanto anteriore, e nella perfezion della lingua
non si potrebbe ragguagliar troppo bene ad Arriano: forse neanche nelle doti di
storico appartenenti [2410]al bello letterario, sebben egli l’avanza di
molto in quelle che spettano alla filosofia, politica ec. Ma quel che mantiene
la lingua, è la bella letteratura, non la filosofia nè le altre scienze, che
piuttosto contribuiscono a corromperla, come fece lo stile di Seneca. E però
Plutarco contemporaneo di Tacito, e com’esso, alquanto più vecchio d’Arriano,
non si può recar per modello nè di lingua nè di stile, essendo però stato forse
più filosofo di tutti i filosofi greci, molti de’ quali sono esempi di
perfettissimo scrivere. Ma non erano così sottili come Plutarco, siccome
Cicerone non lo era quanto Seneca, questi corrottissimo nello scrivere, e
quegli perfettissimo.
Dalla
mia teoria del piacere segue che per essenza naturale e immutabile delle cose,
quanto è maggiore e più viva la forza, il sentimento, e l’azione e attività
interna dell’amor proprio, tanto è necessariamente maggiore l’infelicità del
vivente, o tanto più difficile il conseguimento d’una tal quale felicità. Ora
la forza e il sentimento dell’amor proprio è tanto maggiore quanto è maggiore
la vita, o il [2411]sentimento vitale in ciascun essere; e specialmente
quanto è maggiore la vita interna, ossia l’attività dell’anima, cioè della
sostanza sensitiva, e concettiva. Giacchè amor proprio e vita son quasi una
cosa, non potendosi nè scompagnare il sentimento dell’esistenza propria (ch’è
ciò che s’intende per vita) dall’amore dell’esistente, nè questo esser minore
di quello, ma l’uno si può sempre esattamente misurare coll’altro. E tanto uno
vive, quanto si ama, e tutti i sentimenti di chi vive sono compresi o riferiti
o prodotti ec. dall’amor proprio: il quale è il sentimento universale che
abbraccia tutta l’esistenza; e gli altri sentimenti del vivente (se pur ve n’ha
che sieno veramente altri) non sono che modificazioni, o divisioni, o
produzioni di questo, ch’è tutt’uno col sentimento dell’essere, o una parte
essenziale del medesimo.
Dal che
segue che l’uomo avendo per la sua natura ed organizzazione esteriore ed
interiore maggior vita, maggior capacità di più vasta e più numerosa
concezione, maggior sentimento insomma, o maggior sensibilità di tutti gli [2412]altri
viventi, dee necessariamente avere maggiore intensità, attività, ed estensione
o quantità o sentimento d’amor proprio, che non ne ha verun altro genere di
viventi. Quindi l’uomo per essenza propria e inseparabile, è, e nasce più
infelice, o meno capace di felicità che verun altro genere di viventi, o di
esseri.
Questo
si deve intendere dell’uomo naturale. Ma siccome questa capacità ed intensità e
forza ed attività di sentimento della quale egli è naturalmente provveduto
sopra ogni altro animale, rende il suo spirito più conformabile, più
suscettibile di sempre maggior sentimento, più raffinabile, vale a dire più
capace di sempre più vivamente e più variamente sentire; anzi siccome essa
capacità non è altro che conformabilità, e suscettività di nuovo sentimento, e
di nuove modificazioni dell’animo; così l’uomo, perfezionandosi, come dicono,
cioè crescendo la forza e la varietà e l’intimità del suo sentimento, e perciò
prevalendo in lui sempre più lo spirito, cioè la parte sensitiva, [2413]al
corpo, cioè alla parte torpida e grave; acquista egli e viene di secolo in
secolo necessariamente accrescendo la forza e il sentimento dell’amor proprio,
e quindi di secolo in secolo divien più, e più inevitabilmente infelice. Dal
che segue che l’uomo, come dicono, perfezionato, è, per essenza umana, e per
ordine generale della natura, più infelice del naturale, e tanto più quanto è
più perfezionato. E così l’infelicità dell’uomo è sempre in ragion diretta
degli avanzamenti del suo spirito, cioè della civiltà, consistendo essa negli
avanzamenti dello spirito, e non potendo dire alcuno che il corpo dell’uomo
si sia perfezionato mediante di essa. Anzi è manifestamente scaduto da quel ch’era
nell’uomo naturale, in cui la preponderanza del corpo o della materia tenea
più basso, e men vivo il sentimento, e quindi l’amor proprio e quindi l’infelicità.
In uno
stesso secolo, essendo altri più raffinato, colto ec. di spirito, altri meno,
segue [2414]dalle predette cose che quegli debba necessariamente esser
più infelice, questi meno, in proporzione; e l’ignorante e il rozzo e il
villano manco infelice del dotto, del polito, del cittadino ec.
Indipendentemente
dalla coltura, nascendo gli uomini quali con maggior sensibilità, o vivezza di
spirito, o conformabilità, o sentimento d’uomo (dice il Casa, Galat., cap.26.
princip.), quali con minore, dalle predette cose resta spiegato il perchè gli
uomini quanto più sensibili, tanto più sieno irreparabilmente infelici, e il
perchè la natura dica agli uomini grandi, Soyez grand et malheureux (D’Alembert).
Giacchè questo maggior sentimento non è altro che maggior vivezza e profondità
e senso ed attività d’amor proprio, o non può star senza queste cose,
abbracciando l’amor proprio ogni possibile sentimento animale, e producendolo,
o essendo sostanzialmente legato con essolui, e in proporzion diretta con esso.
[2415]Alla p.2402. Non solo non bisogna
vantarsi delle proprie sciagure, ma guardarsi di confessarle, e ciò anche a
quelli cui sono notissime. Se ne perde, non solo la protezione, o l’amore
efficace, ma eziandio la semplice affezione, e lo so per propria sperienza.
La vita
è fatta naturalmente per la vita, e non per la morte. Vale a dire è fatta per l’attività,
e per tutto quello che v’ha di più vitale nelle funzioni de’ viventi.
(5.
Maggio. 1822.)
Una
lingua non è bella se non è ardita, e in ultima analisi troverete che in fatto
di lingue, bellezza è lo stesso che ardire. E che altro sarebb’ella?
L’armonia ec. del suono delle parole? Quest’è una bellezza affatto esterna, e
della quale poco o nulla si può convenire, essendo diversissime in questo
genere le opinioni e i gusti, secondo le nazioni e i secoli. Per noi è
bruttissimo il suono delle parole orientali, e per gli orientali altrettanto
sarà delle nostre. E parlando esattamente che cosa intendiamo noi dell’armonia
della lingua greca che pur chiamiamo bellissima? Che sentimento, che gusto [2416]ne
proviamo noi, se non, per dir poco, incertissimo, confusissimo, e
superficialissimo? Certo è che l’armonia della lingua nostra, qualunque ella
sia, ed ancorchè asprissima, ci diletta, ed è sentita da noi molto più che
quella della lingua greca, e quindi non avremmo alcuna ragione di preferir
questa lingua per la bellezza, neppure alla tedesca, o alla russa. Forse la
bellezza consisterà nella ricchezza? Ricchezza di frasi e di modi non si dà se
non in una lingua ardita, perchè, di forme esatte e matematiche, tutte le
lingue ne sono o ne possono essere egualmente ricche nè più nè meno: e questa
ricchezza non può molto stendersi, essendo limitatissima per natura sua:
giacchè la dialettica poco può variare, anzi derivando da principii uniformi e
semplicissimi, tende e produce naturalmente somma uniformità e semplicità di
dicitura. La ricchezza poi di parole puramente, giova alla bellezza, ma non
basta di gran lunga; ed anch’essa è una qualità quasi estrinseca, e senza quasi
accidentale alla lingua, la quale senza punto punto alterarsi, o scomporsi in
niun [2417]modo può essere ed è, oggi più abbondante di parole, domani
meno, secondo le circostanze nazionali, commerciali, politiche, scientifiche
ec. Infatti la lingua francese è in verità ricchissima di parole, massime in
filosofia, scienze, conversazione, manifatture, e in ogni uso e materia di
società, di commercio ec. ec. e non per questo è bella, nè più bella dell’italiana,
e neanche della spagnuola. La vera e non accidentale, ma essenziale bellezza di
una lingua, quella che non si può perdere, se la lingua non si corrompe
formalmente, è una bellezza intrinseca, e spetta all’indole della lingua; e
questa non può consistere in altro che nell’ardire. Or questo ardire che cos’è,
fuorchè la libertà di non essere esatta e matematica? Giacchè quanto all’esattezza,
torno a dire, tutte le lingue ne sono egualmente capaci, e tutte per mezzo suo
posson divenire, e diverrebbero uniformi affatto nell’indole, essendo la
ragione, una; e non trovandosi varietà se non se nella natura. Quindi se lingua
bella è lingua ardita e libera, ella è parimente lingua non esatta, e
non obbligata [2418]alle regole dialettiche delle frasi,
delle forme, e generalmente del discorso. Osservate tutte le lingue chiamate
belle, antiche e moderne, greca, latina, italiana, spagnuola: in tutte
troverete non altra bellezza propriamente che ardire, e questo ardire non posto
in altro che nelle cose sopraddette. Osservate anche gli scrittori chiamati
belli ed eleganti in ciascuna di tali lingue, e paragonateli con quelli che non
lo sono. Osservate per se, ciascuna frase, forma ec. chiamata bella ed
elegante, e paragonatela ec. Non v’è lingua bella che non sia lingua poetica,
cioè non solo capace, anzi posseditrice d’una lingua distintamente poetica
(come l’hanno tutte le suddette, e come non l’ha la francese), ma poetiche,
generalmente parlando, eziandio nella prosa, benchè senza affettazione; vale a
dir poetiche in quanto lingue, e non quanto allo stile, come sono sconciamente,
e discordantissimamente poetiche tutte le prose francesi. Or lingua poetica, è
lingua non matematica, [2419]anzi contraria per indole allo spirito
matematico. (La sascrita, riputata bellissima fra le orientali, è notatamente
arditissima e poeticissima.)
Quelli
pertanto che essendo gelosissimi della purità e conservazione della lingua
italiana, si scontorcono, come dice il Bartoli (Torto ec. c.11.), ad ogni
maniera di dire che non sia stampata sulla forma della grammatica universale,
non sanno che cosa sia nè la natura della lingua italiana che presumono di
proteggere, nè quella di tutte le lingue possibili. Ciascuna bellezza, sì di
una lingua in genere (eccetto l’armonia e la ricchezza delle parole, o delle
loro inflessioni), sì di un modo di dire in ispecie, è un dispetto alla
grammatica universale, e una espressa (benchè or più grave or più leggera)
infrazione delle sue leggi.
(5.
Maggio. 1822.). V. p.2425.
L’animo
forte ed alto resiste anche alla necessità, ma non resiste al tempo, vero ed
unico trionfatore di tutte le cose terrene. Quel dolore profondissimo e
ostinatissimo, che sdegnava e calpestava la consolazione volgare [2420]della
sventura, cioè l’inevitabilità, e l’irreparabilità della medesima, e il non
poterne altro, che rinasceva ogni giorno e talvolta con maggior forza di prima,
che per lunghissimo spazio, era sembrato indomabile e inestinguibile, e
piuttosto pareva accrescersi di giorno in giorno che scemarsi; per tutto ciò
non può far che ricusi e non ammetta la consolazione del tempo, e dell’assuefazione
che il tempo insensibilmente e dissimulatissimamente introduce, e che in
ultimo, dopo ostinatissima guerra non si trovi vinto e morto, e che quell’animo
feroce non pieghi il collo, e non s’adatti a strascinare il suo male senza
sdegno, e senza forza di dolersene. E ben può egli avere sdegnato e rifiutato
per lungo tempo anche la consolazione del tempo, ma non perciò l’ha potuta
sfuggire. (5. Maggio. 1822.). Si può ricusare la consolazione della stessa
necessità, ma non quella del tempo.
Il punto
d’onore (come dicono gli spagnuoli) fu conosciuto egualmente dagli antichi e
dai moderni, e quasi da tutte le società, benchè poco o [2421]niente
civili, in qualunque tempo, come anche da’ Messicani, anche da’ selvaggi. Ed è
naturale all’uomo posto in relazione cogli uomini. Tuttavia in questo punto gli
antichi differiscono dai moderni, e i selvaggi dai civili, infinitamente, e l’utilità
del punto d’onore che fra gli antichi e i selvaggi era somma, fra i moderni e
civili è nulla o quasi nulla, o anche il contrario dell’utilità. Le ragioni
eccole.
Il punto
d’onore è una delle tante illusioni dell’uomo sociale, ed è tutto riposto nell’opinione.
Or questa opinione (giacchè nella sostanza e verità delle cose esso non è
nulla) può esser più o meno utile, ed esser utile o disutile secondo
primieramente in quali cose ella ripone il punto d’onore (e questo è già
chiaro), poi secondo il genere intrinseco di quest’onore per se, e la sua
maggiore o minor grandezza, e la sua diversa qualità, e il suo peso specifico,
indipendentemente dagli oggetti sui quali si esercita, o da’ quali deriva.
Paragoniamo
ora gli antichi ai moderni, e in questo paragone saranno inclusi anche i [2422]selvaggi
e i civili, mettendo quelli per gli antichi, e i civili in luogo de’ moderni.
Per punto di onore quei due parenti o amici di Leonida (vedi meglio la storia)
alle Termopile, ricusarono l’ambasciata che questi proponeva loro di fare, e
dicendo ch’erano quivi per combattere, e non per portar lettere, restarono, e
morirono coi loro compagni in difesa della patria, essendo già certi di non
potere scampar la morte, quando fossero rimasti. Per punto d’onore quel giovane
offeso pubblicamente da un altro, lo sforza a combattere colla spada, e mette a
rischio la propria vita, e quella eziandio d’un amico intrinseco e carissimo,
che inavvertentemente, o per un accesso di passione l’abbia ingiuriato.
Qui sono
da considerar tre cose. 1. La forza del punto d’onore, e la necessità ch’egli
impone. Questa è uguale in tutti e due i casi: perchè nell’uno e nell’altro l’infamia
(secondo l’opinione ch’è il solo fondamento del punto d’onore) sarebbe stata la
pena di quei due greci, e di questo giovane, se avessero contravvenuto alle
leggi del punto d’onore. Sicchè questa forza (notate bene) non è niente scemata
da’ tempi [2423]antichissimi in qua, se non forse nell’estensione, cioè
in quanto ella opera in minor numero di persone. Ma in quelli in cui opera ell’è
dello stesso valore.
2. L’utilità del punto d’onore ne’ due casi.
Questa è chiaro che nel primo caso è somma, nel secondo è nulla, anzi in luogo
suo v’ha una grandissima disutilità, e danno.
3. La grandezza e la qualità di quest’onore,
ossia la natura di quell’idea che l’uomo se ne forma. Questa si può vedere considerando
che il premio di quei due greci per aver osservato le leggi del punto d’onore,
furono il rispetto e l’invidia portata dai loro concittadini ai loro parenti;
la sepoltura pubblica; gli onori piuttosto festivi che funebri renduti alla
loro memoria; gl’inni e i cantici de’ poeti e dei musici per tutta la Grecia, e
quindi per sempre nelle altre nazioni civili; la ricordanza eterna delle storie
patrie e forestiere; l’immortalità in somma, non solo presso i greci, ma presso
tutti gli altri popoli colti, fino a oggidì. Il premio di quel giovane
duellatore è la stima di pochi giovanastri suoi pari, d’una società di caffè, [2424]o
per dir molto, degli scioperati d’una provincia; e bene spesso la carcere, o l’esilio
volontario, la confisca dei beni ec.
In
somma, considerando attentamente, si vede che l’onore antico, anche in quanto
era oggetto del punto d’onore, non si differenziava dalla gloria, e da una
gloria riconosciuta da tutti per tale; laddove il moderno in molti casi, e
presso molta, e (per lo più) la miglior parte della società, non si differenzia
dall’infamia. Questa è la più notabile ed importante diversità che passa fra l’onore
antico e il moderno; che quello era gloria, e questo, per dir poco, è nulla.
La
qual differenza si può vedere anche nelle cose, dove il punto d’onore moderno
sarebbe utile, non altrimenti che l’antico. Che gloria, che immortalità si
guadagna, che entusiasmo commove un uffiziale che per punto d’onore, tien fermo
in un posto pericolosissimo, o vi resta morto? Si può veramente dire che l’onor
moderno è tutto opinione, e più opinione di quel che lo fosse l’antico. Giacchè
l’onor moderno sebbene riconosciuto da molti, sta tutto nell’opinione [2425]individuale
di ciascuno per se, e dopo ch’egli n’ha osservato le leggi, anche con suo sommo
sacrificio, nessuno onore gliene viene, neanche dall’opinione degli altri, che
lo dispensa. Come quegli atti secreti di virtù, quelle buone opere di pensiero,
che in questo mondo non son premiate se non dalla propria coscienza. Tutto l’opposto
succedea fra gli antichi.
Era
punto d’onore nelle truppe spartane il ritornare ciascuno col proprio scudo.
Circostanza materiale, ma utilissima e moralissima nell’applicazione, non
potendosi conservare il loro scudo amplissimo (tanto che vi capiva la persona distesa),
senza il coraggio di far testa, e di non darsi mai alla fuga, che un tale scudo
avrebbe impedita.
Alla
p.2419. Come può esser bella una lingua che non ha proprietà? Non ha
proprietà quella lingua che nelle sue forme, ne’ suoi modi, nelle sue facoltà
non si distingue dalle forme, modi, facoltà della grammatica generale, e del
discorso umano regolato dalla dialettica. Una lingua regolata da questa sola [2426]non
ha niente di proprio; tutto il suo è comune a tutte le nazioni parlanti, e a
tutte le altre lingue; il suo spirito, la sua indole, il suo genio non è suo,
ma universale; vale a dire ch’ella non ha veruna originalità, e quindi non può
esser bella, cioè non può esser nè forte, nè distintamente nobile, nè
espressiva, nè varia (quanto alle forme), nè adattata all’immaginazione, perchè
questa è diversissima e moltiplice, e nel tempo stesso ella è la sola facoltà
umana capace del bello, e produttrice del bello. Ora che cosa vuol dire una
lingua che abbia proprietà? Non altro, se non una lingua ardita, cioè capace di
scostarsi nelle forme, nei modi ec. dall’ordine e dalla ragion dialettica del
discorso, giacchè dentro i limiti di quest’ordine e di questa ragione, nulla è
proprio di nessuna lingua in particolare, ma tutto è comune di tutte. (Parlo in
quanto alle forme, facoltà ec. e non in quanto alle nude parole, o alle
inflessioni delle medesime, isolatamente considerate.) Dunque se non è, nè può
esser bella la forma di una lingua che non ha proprietà, non è nè può esser [2427]bella
una lingua che nella forma sia tutta o quasi tutta matematica, e conforme alla
grammatica universale. E così di nuovo si viene a concludere che la bellezza
delle forme di una lingua (tanto delle forme in genere, quanto di ciascuna in
particolare) non può non trovarsi in opposizione colla grammatica generale, nè
esser altro che una maggiore o minor violazione delle sue leggi.
La
lingua francese si trova nel caso detto di sopra: poich’ella in quanto alla
forma, esattamente parlando, non ha proprietà, vale a dir che non ha qualità
sua propria, ma tutte le ha comuni con tutte le lingue, e colla ragione
universale della favella. Il che quanto noccia alla originalità, anzi l’escluda,
e quanto per conseguenza favorisca la mediocrità, anzi la richieda e la sforzi,
resta chiaro per se stesso. (Bossuet, scrittore non mediocre, ebbe bisogno di
domare, come gli stessi francesi dicono, la sua lingua; e come dico io, fu
domato e forzato alla mediocrità dello stile, dalla sua lingua. E così lo sono
tutti quegli scrittori francesi [2428]che hanno sortito un ingegno
naturalmente superiore al mediocre. Nè più nè meno di quello che la società, e
lo spirito della nazion francese, sforzi alla mediocrità in ogni genere di cose
gli uomini i più elevati della nazione, e gli spiriti più superiori all’ordinario.
Essendo la mediocrità non solo un pregio, ma una legge in quella nazione, dove
il supremo dovere dell’uomo civile, è quello d’esser come gli altri).
Dalle
dette considerazioni segue che la lingua francese, non avendo nessuna o quasi
nessuna proprietà, e quindi ripugnando alla vera e decisa originalità dello
stile (ben diversa da quelle minime differenze dell’ordinario, che i francesi
esaltano come somme originalità), non può aver lingua poetica; e così è nel
fatto.
Segue
ancora, che, non avendo niente di proprio, ma tutto comune a tutte le lingue, e
tutto proprio del discorso umano in quanto discorso umano, dev’essere
accomodata sopra tutte alla universalità: e così è realmente.
[2429]A voler esser lodato o stimato
dagli altri, bisogna per necessità intuonar sempre altamente e precisamente
alle orecchie loro: io vaglio assai più di voi: acciocchè gli altri dicano:
colui vale alquanto più di noi, o quanto noi. La fama di ciascheduno in
qualsivoglia genere, o propriamente o almeno metaforicamente parlando, è sempre
incominciata dalla bocca propria. Se tu fai nel cospetto di quanta gente tu
vuoi, un’azione o una produzione ec. la più degna e la più lodevole che si
possa immaginare; t’inganni a partito se credi che quell’azione ec. essendo
manifestissima, e manifestissimamente lodevolissima, gli altri debbano aprir la
bocca spontaneamente, e cominciare essi a dir bene di te. Guardano, e tacciono
eternamente, se tu non rompi il silenzio, e se non hai l’arte o il coraggio d’essere
il primo a far questo. Ciò massimamente in questi tempi di perfezionato e
purificato egoismo. Chi vuol vivere, si scordi della modestia.
(7.
Maggio. 1822.)
Che
società, che amicizia, che commercio potresti tu avere con un cieco e sordo, o
egli con te? [2430]Al quale nè coi gesti nè colle parole potresti
communicare alcuno de’ tuoi sentimenti, nè egli a te i suoi? e per conseguenza
qual comunione di spirito, cioè di vita e di sentimento potresti aver seco lui?
qual sentimento di te penseresti d’aver destato, o di poter mai destare nell’animo
suo? E nondimeno tu sai pur ch’egli vive, ed oltracciò di vita umana e d’un
genere medesimo colla tua; ed egli potrebbe forse in qualche modo darti ad
intendere i suoi bisogni, e beneficato esteriormente da te, o in altro modo
influito, potrebbe aver qualche senso della tua esistenza, e formarsi di te
qualche idea; anzi è certo che ti considererebbe come suo simile, non ch’egli n’avesse
alcuna prova certa, ma appunto per la scarsezza delle sue idee; come fanno i
fanciulli, che sempre inclinano a creder tutto animato, e simile in qualche
modo a loro, non conoscendo, nè sapendo neppure insufficientemente concepire
altra forma d’esistenza che la propria, nonostante ch’essi pur vedano la
differenza della figura, e delle qualità esteriori.
[2431]Or se contuttociò, tu non
crederesti di poter aver con costui nessuna o quasi nessuna società, e non ti
soddisfaresti nè ti compiaceresti in alcun modo del suo commercio, che dovremo
dire di quella società che i filosofi tedeschi e romantici, vogliono che il
poeta supponga, anzi ponga e crei fra l’uomo e il resto della natura? La qual
società vogliono che sia tale che tutto per immaginazione si supponga vivo
bensì, ma non di vita umana, anzi diversissima secondo ciascun genere di
esseri? Non è questa una società peggiore e più nulla di quella col cieco e
sordo? Il quale finalmente è uomo. Ma qui sebben tu creda, e poeticamente t’immagini
che le cose vivano, non supponendo che questa vita abbia nulla di comune colla
tua, che sentimento di te puoi presumere di destare in loro, o qual sentimento
della vita loro puoi presumere di ricever da essi, non potendo neppur concepire
altra forma di vita se non la propria? Che giova alla tua immaginazione
e alla tua sensibilità il figurarti che la natura viva? Che relazione può la
tua fantasia fabbricarsi [2432]colla natura per questo? Ella è cieca e
sorda verso te, e tu verso lei. Non basta al sentimento e al desiderio innato
di quasi tutti i viventi che li porta verso il loro simile, il figurarsi
che le cose vivano, ma solamente che vivano di vita simile per natura
alla propria. Tolta questa non v’è società fra viventi, come non vi può esser
società fra cose dissimili, e molto meno fra cose che in nessun modo si possono
intendere l’une coll’altre, nè comunicarsi alcun sentimento, nè farsi
scambievolmente verun segno di se, e neppur concepire o formarsi nessuna idea
del genere di vita l’una dell’altra. Fra le bestie e l’uomo non è di gran lunga
così, e perciò qualche società può passare e passa fra questo e quelle, e
maggiore, quanto più la loro vita, e il loro spirito è simile al nostro, e
quanto più esse mostrano di concepire le cose nostre, e noi le loro; e maggiore
eziandio generalmente perchè l’immaginazione nostra (e probabilmente anche la
loro) entra in questo commercio altresì, e ce le dipinge molto più simili a noi
che forse non sono, e noi a loro parimente. [2433]Certo è poi che
grandissima affinità e somiglianza passa tra la vita degli animali e la nostra,
tra le loro passioni (radicalmente parlando) e fra le nostre ec. Affinità e
somiglianza che non si trova o non apparisce fra l’esistenza delle cose
inanimate e la nostra; che l’immaginazione antica, e fanciullesca, e, più o
meno, quella di tutti i tempi, non vedendola, la suppone e la crea; che i bravi
tedeschi non vogliono che si supponga, e che non per tanto s’immagini e si
conservi un commercio scambievole fra le cose inanimate e l’uomo.
(8.
Maggio. 1822.)
Amando
il vivente quasi sopra ogni cosa la vita, non è maraviglia che odi quasi sopra
ogni cosa la noia, la quale è il contrario della vita vitale (come dice
Cicerone in Lael.). Ed in tanto non l’odia sempre sopra ogni cosa, in quanto
non ama neppur sempre la vita sopra ogni cosa; p.e. quando un eccesso di dolor
fisico gli fa desiderare anche naturalmente la morte, e preferirla a quel
dolore. Vale a [2434]dire quando l’amor proprio si trova in maggiore
opposizione colla vita che colla morte. E perciò solo egli preferisce la noia
al dolore, cioè perchè gli preferisce eziandio la morte, se non quanto spera di
liberarsi dal dolore, e il desiderio della vita è così mantenuto puramente
dalla speranza.
Del
resto l’odio della noia, è uno di quei tanti effetti dell’amor della vita
(passione elementare ed essenziale nel vivente) che ho specificati in parecchi
di questi pensieri. E l’uomo odia la noia per la stessa ragione per cui odia la
morte, cioè la non esistenza. E quest’odio medesimo della noia è padre d’altri
moltissimi e diversissimi effetti, e sorgente d’altre molte e varie passioni o
modificazioni delle medesime, tutte essenzialmente derivanti da esso odio,
delle quali ho pur detto in più luoghi.
(8.
Maggio 1822.)
Che le
passioni antiche fossero senza comparazione più gagliarde delle moderne, e gli
effetti loro più strepitosi, più risaltati, più materiali, [2435]più
furiosi, e che però nell’espression loro convenga impiegare colori e tratti
molto più risentiti che in quella delle passioni moderne, è cosa già nota e
ripetuta. Ma io credo che una differenza notabile bisogni fare tra le varie
passioni, appunto in riguardo alla maggiore o minor veemenza loro fra gli
antichi e i moderni comparativamente; e per comprenderle tutte sotto due capi
generali, io tengo per fermo (come fanno tutti) che il dolore antico fosse di
gran lunga più veemente, più attivo, più versato al di fuori, più smanioso e
terribile (quantunque forse per le stesse ragioni più breve) del moderno. Ma in
quanto alla gioia, ne dubiterei, e crederei che, se non altro in molti casi,
ella potesse esser più furiosa e violenta presso i moderni che presso gli
antichi, e ciò non per altro se non perch’ella oggidì è appunto più rara e
breve che fosse mai, come lo era nè più nè meno il dolore anticamente. Questa
osservazione potrebbe forse servire al tragico, al pittore, ed altri imitatori
delle passioni. Vero è che nel fanciullo e la gioia e il dolore sono del pari [2436]più
violenti, ed altresì per la stessa ragione più brevi che nell’adulto. Ed è vero
ancora che l’abitudine dell’animo de’ moderni li porta a contenere dentro di
se, ed a riflettere sullo spirito, senza punto o quasi punto lasciarla spargere
ed operare al di fuori, qualunque più gagliarda impressione e affezione.
Contuttociò credo che la detta osservazione possa essere di qualche rilievo,
massime intorno alle persone non molto o non interamente colte e disciplinate,
sia nella vita civile, sia nelle dottrine e nella scienza delle cose e dell’uomo;
e intorno a quelle che dall’esperienza e dall’uso della vita, della società, e
de’ casi umani non sono stati bastantemente ammaestrati ad uniformarsi col
generale, nè accostumati a quell’apatia e noncuranza di se stesso e di tutto il
resto, che caratterizza il nostro secolo.
Il
mondo, o la società umana nello stato di egoismo (cioè di quella modificazione
dell’amor proprio così chiamata) in cui si trova presentemente, si può
rassomigliare al sistema [2437]dell’aria, le cui colonne (come le
chiamano i fisici) si premono l’une l’altre, ciascuna a tutto potere, e per
tutti i versi. Ma essendo le forze uguali, e uguale l’uso delle medesime in
ciascuna colonna, ne risulta l’equilibrio, e il sistema si mantiene mediante
una legge che par distruttiva, cioè una legge di nemicizia scambievole
continuamente esercitata da ciascuna colonna contro tutte, e da tutte contro ciascuna.
Nè più
nè meno accade nel sistema della società presente, dove non ciascuna società o
corpo o nazione (come presso gli antichi), ma ciascun uomo individuo
continuamente preme a più potere i suoi vicini, e per mezzo di esso i lontani
da tutti i lati, e n’è ripremuto da’ vicini e da’ lontani a poter loro nella
stessa forma.
Dal che
risulta un equilibrio prodotto da una qualità distruttiva, cioè dall’odio e
invidia e nemicizia scambievole di ciascun uomo contro tutti e contro ciascuno,
e dal perenne esercizio di queste passioni (cioè [2438]in somma dell’amor
proprio puro) in danno degli altri.
Con ciò
resta spiegata una specie di fenomeno. Lo stato d’egoismo puro, e quindi di
puro odio verso altrui (che ne segue essenzialmente) è lo stato naturale dell’uomo.
Ma ciò non è maraviglia, spiegandosi esso, e dovendosi necessariamente
spiegare, col negar la pretesa destinazione naturale dell’uomo allo stato
sociale stretto (cioè diverso da quello ch’hanno fra loro quasi tutte le
bestie, massime le più svegliate); al quale stato ripugnano per natura loro le
dette qualità naturalissime e assolutamente proprie dell’uomo (come si può
vedere anche nel fanciullo ec.). La maraviglia è ch’essendo tornato l’uomo allo
stato naturale per questa parte (mediante l’annichilamento delle antiche
opinioni e illusioni, frutto delle prime società e relazioni contratte
scambievolmente dagli uomini), la società non venga a distruggersi
assolutamente, e possa durare con questi principii distruttivi [2439]per
natura loro. Il qual fenomeno resta spiegato colla sopraddetta comparazione. E
questo equilibrio (certo non naturale, ma artifiziale), cioè questa parità e
questa universalità d’attacco e di resistenza, mantiene la società umana, quasi
a dispetto di se medesima, e contro l’intenzione e l’azione di ciascuno degl’individui
che la compongono, i quali tutti o esplicitamente o implicitamente mirano sempre
a distruggerla.
Dalla
detta comparazione caveremo altresì un corollario morale. Se qualche colonna d’aria
viene a rarefarsi, o a premer meno dell’altre, e far meno resistenza per
qualunque accidente, ciascuna delle colonne vicine, e ciascuna delle lontane
addossandosi alle vicine, senza un istante d’intervallo, corrono ad occupare il
luogo suo, e non appena ella ha lasciato di resistere sufficientemente, che il
suo luogo è conquistato. Così la campana pneumatica anderebbe in minutissimi
pezzi, mancando la sufficiente resistenza dell’aria quivi rinchiusa, se non si
provvedesse a questo colla configurazione [2440]della campana. Lo
stessissimo accade fra gli uomini, ogni volta che la resistenza e reazione di
qualcuno manca o scema, sia per impotenza, sia per inavvertenza, sia per
volontà o inesperienza. E però son da ammonire i principianti della vita, che
se intendono di vivere, e di non vedersi preso il luogo immediatamente, e non
esser messi a brani o schiacciati, s’armino di tanta dose d’egoismo quanta
possano maggiore, acciocchè la reazion loro sia, per quanto essi potranno, o
maggiore o per lo meno uguale all’azione degli altri contro di loro. La quale,
vogliano o non vogliano, credano o non credano, avranno infallibilmente a
sostenere, e da tutti, amici o nemici che sieno di nome, e tanta quanta
maggiore sarà in poter di ciascuno. Chè se il cedere per forza, cioè per causa
della propria impotenza (in qual genere ch’ella si sia), è miserabile; il
cedere volontariamente, cioè per mancanza di sufficiente egoismo in questo
sistema di pressione generale, è ridicolo e da sciocco, e da inesperto o
irriflessivo. E [2441]si può dire con verità che il sacrifizio di se
stesso (in qual si voglia genere o parte) il quale in tutti gli altri tempi fu
magnanimità, anzi la somma opera della magnanimità, in questi è viltà, e
mancanza di coraggio o d’attività, cioè pigrizia, e dappocaggine; ovvero
imbecillità di mente; non solamente secondo l’opinione degli uomini, ma
realmente e secondo il retto giudizio, stante l’ordine e la natura effettiva e
propria della società presente.
Non si
nomina mai più volentieri, nè più volentieri si sente nominare in altro modo
chiunque ha qualche riconosciuto difetto o corporale o morale, che pel nome
dello stesso difetto. Il sordo, il zoppo, il gobbo, il matto tale. Anzi queste
persone non sono ordinariamente chiamate se non con questi nomi, o chiamandole
pel nome loro fuor della loro presenza, è ben raro che non vi si ponga quel
tale aggiunto. Chiamandole o udendole chiamar così, pare agli uomini d’esser
superiori a questi tali, godono dell’immagine del loro difetto, sentono e si
ammoniscono in certo modo della propria superiorità, l’amor proprio n’è
lusingato e se ne compiace. Aggiungete l’odio eterno e naturale dell’uomo verso
l’uomo che si pasce [2442]e si diletta di questi titoli ignominiosi,
anche verso gli amici o gl’indifferenti. E da queste ragioni naturali nasce che
l’uomo difettoso com’è detto di sopra, muta quasi il suo nome in quello del suo
difetto, e gli altri che così lo chiamano intendono e mirano indistintamente
nel fondo del cuor loro a levarlo dal numero de’ loro simili, o a metterlo al
di sotto della loro specie: tendenza propria (e quanto alla società, prima e
somma) d’ogn’individuo sociale. Io mi sono trovato a vedere uno di persona
difettosa, uomo del volgo, trattenersi e giocare con gente della sua
condizione, e questa non chiamarlo mai con altro nome che del suo difetto,
tanto che il suo proprio nome non l’ho mai potuto sentire. E s’io ho veruna
cognizione del cuore umano, mi si dee credere com’io comprendeva chiaramente
che ciascuno di loro, ogni volta che chiamava quell’uomo disprezzatamente con
quel nome, provava una gioia interna, e una compiacenza maligna della propria
superiorità sopra quella creatura sua simile, e non tanto dell’esser libero da
quel difetto, quanto del vederlo e poterlo deridere e rimproverare in quella
creatura, essendone libero esso. E per quanto frequente fosse nelle loro bocche
quell’appellazione, io sentiva e conosceva ch’ella non usciva mai dalle loro
labbra senza un tuono esterno e un senso e giudizio interno di trionfo e di
gusto.
Juvare col dativo, caso comune al nostro giovare,
è rarissimo negli scrittori latini, vedilo appresso Plauto, nel Forcellini.
Ho detto
altrove d’una grande incertezza e di molti scambi che si trovano nell’uso
latino circa i tempi dell’ottativo o soggiuntivo, ora scambiati fra se, ora
sostituiti a quelli dell’indicativo: ed ho mostrato come questi usi che si
tengono per pure eleganze degli scrittori latini, fossero comuni anche al
volgare, e si conservino nelle lingue derivate, non certo dal latino elegante,
ma da esso volgare. A questo proposito si può notare il presente ottativo
latino, usato spessissimo ed elegantemente in vece dell’imperfetto ottativo, e
in certo modo anche del futuro indicativo, come in Orazio Sat. 1. v.19. l.1 nolint
per nollent, o nolent; [2443]od. 3. v.66. e 68. l.3. pereat,
ploret, per periret, ploraret, o peribit, plorabit.
E ciò massimamente (come appunto ne’ due luoghi citati), precedendo la
condizionale si o simile, espressa o sottintesa: nel qual caso appunto
ho notato altrove la detta varietà, e figurato uso dell’ottativo, e suoi
diversi tempi. E vedi, fra gli altri pensieri relativi a questo, pag.2221.
fine, e 2257.
Di ciò
che ho notato altrove che l’uso di fabbricar nuovi composti, e di supplir così
al bisogno di esprimer nuove idee, o nuove parti d’idee (ch’è tutt’uno,
secondo le osservazioni della moderna ideologia), essendo stato così comune
alle lingue antiche, e alle stesse moderne ne’ loro principii, s’è poi quasi
dimenticato, per utilissimo che sia; se ne possono dar, fra l’altre, le
seguenti ragioni.
1. Che tutte le lingue ne’ loro principii sono
per necessità più ardite che nel progresso, e le lingue antiche rispettivamente
più ardite delle moderne. Or queste composizioni richiedono un certo ardire,
massime trattandosi di farne un grand’uso, e d’applicar questa facoltà a quasi
tutti i nuovi bisogni della lingua.
2. Che nelle lingue antiche la necessità di far
grand’uso de’ composti, era molto ma molto [2444]maggiore che nelle
moderne, a causa del tanto minor numero ch’esse avevano di parole originarie.
Le radici, come ho detto altrove, e assegnatene le ragioni, son sempre
scarsissime in una lingua nascente. Quindi l’assoluto bisogno della
composizione, crescendo il numero delle cose da esprimersi, e volendosi
perfezionar l’espressione delle cose, e distinguerla meglio; e arrivando gli
uomini appoco appoco a staccare un’idea dall’altra, e a suddividerle (ch’è
tutto il progresso dello spirito umano), e però avendo mestieri di nuove
parole. E infatti si vede che l’incremento e il perfezionamento di qualunque
lingua antica è stata ridotta a una certa perfezione, fu sempre compagno, o
anch’effetto dell’uso di comporre più parole in una, arricchendo così la
lingua: nel qual uso, e in quello dei derivativi (de’ quali parimente intendo
qui di ragionare) i greci e latini furono singolari maestri.
Ma
derivando le lingue moderne da lingue già perfezionate e letterate, la
scarsezza delle radici non vi si osserva più, essendo divenute radicali, o in
qualunque modo semplici e indipendenti per noi, quelle infinite parole [2445]che,
p.e. in latino, sono evidentemente composte o derivate da altre, e che son
rimaste in uso p.e. nell’italiano. Dove, quantunque la provenienza e dipendenza
loro ci sia così manifesta e vicina, pur fanno offizio, ed hanno, relativamente
alla lingua nostra, la vera natura di radicali 1. o perchè gli elementi di cui
si compongono, separati che sieno, non significano niente in italiano, come
significavano in latino, o quando anche l’un d’essi abbia qualche significato
da se, l’altro, o gli altri, non l’hanno; 2. o perchè corrotte e travisate in
modo che la forma de’ loro elementi è perduta affatto, quando anche essi
elementi sussistano ancora per se stessi nell’italiano; 3. o perchè, essendo
esse derivative in latino, non sussistono nell’italiano quelle voci latine da
cui esse derivano; 4. o perchè, sussistendo anche queste voci, non sussiste più
il costume di derivarne le altre parole in quei tali modi latini; e così le
originarie e le derivate, quanto al latino, nella lingua nostra sono
indipendenti l’une dall’altre, e rispetto alla nostra lingua, non hanno fra
loro alcun’affinità (forse neanche di significato, per le solite alterazioni), [2446]ma
l’une e l’altre quanto all’italiano, si debbono egualmente riconoscere per
radicali.
Da tutte
le quali cose è seguito che abbondando noi sommamente di radicali, abbiamo
intermesso, e poi lasciato, e finalmente quasi dimenticato l’uso delle
derivazioni, e principalmente delle composizioni di nuove parole; e con ciò
resolo assai difficile a chi voglia richiamarlo. Il qual uso, sebbene non tanto
quanto in greco e in latino, pur fu comune ai primi scrittori italiani,
perciocchè la lingua era ancor povera di radici, come accade a tutte le lingue
ne’ loro principii, e quindi si ricorse necessariamente a questo mezzo, a cui
tutte le lingue ricorrono col perfezionarsi. Ma impinguata poi la lingua sì con
questo mezzo, sì coll’arricchirla d’infinite parole latine, che per noi, come
ho detto, vengono ad esser tante radici, si dimenticò l’uso della derivazione e
composizione, come suol pure accadere alle altre lingue per cagioni simili;
p.e. alla lingua latina accadde quando ella s’impinguò strabocchevolmente di
parole greche, le quali per lei divenivan tante radicali, e così cresciuto di
moltissimo il numero delle sue radici, dimenticò o scemò l’uso di comporre o
derivare nuove parole dalle già esistenti, per li nuovi bisogni, come [2447]ho
significato di proposito altrove.
Nè
perciò la lingua latina ne divenne più potente che fosse prima: nè la lingua
italiana similmente. Le radici, per quante vogliano essere, son sempre poche al
bisogno, essendo infinite le idee, e la memoria e le facoltà degli uomini
essendo limitatissime, e però incapaci di ritener precisamente tante parole
quante sono le idee, e le parti e diversità loro; se queste parole sono affatto
diverse e dissimili e indipendenti l’una dall’altra, come avverrebbe se tutte
fossero radicali. E quindi l’uomo è incapace di possedere e di usare una lingua
che abbia nel tempo stesso tante parole quante mai sono le cose da esprimersi,
e che sia tutta composta di radici sole. La composizione e derivazione sono il
mezzo più semplice e vero, riducendo infinite parole sotto pochi elementi, come
ho spiegato altrove paragonando questo mezzo alla scrittura nostra, e una
lingua tutta composta di radici alla scrittura Cinese.
Quindi
non potendo mai bastar le radici, e avendo noi lasciato l’uso della derivazione
e composizione di nuove parole dalle già esistenti, vediamo infatti che con
tanto maggior numero di [2448]radici, la lingua nostra è infinitamente
meno ricca e potente, e meno esatta e propria nell’espressione delle minime
diversità delle idee, di quel che fossero la latina e la greca con tanto meno radici.
La
conclusione è che bisogna a tutti i patti, e malgrado qualunque difficoltà,
riassumer l’uso di spiegar le nuove idee col comporre, derivare, e formare
nuove parole dalle radici della propria lingua; essendo questo, per natura
delle cose (che tutto opera per modificazione degli elementi, e non per
aggiunzione di sempre nuovi elementi, per modificazione o composizione e non
per moltiplicazione), l’unico, proprio, ed assoluto mezzo di rendere una lingua
sufficiente ed uguale a qualunque numero d’idee, ed a qualunque novità d’idee;
e renderla tale non accidentalmente ma per propria essenza, e non per alcuni
momenti, come può essere adesso p.e. la francese, ma per sempre finch’ella
conserva il suo carattere: come s’è veduto manifestamente nella lingua greca
che da’ tempi antichissimi fino a oggidì, è stata ed è eternamente capace di
qualunque novità d’idee, [2449]antiche o moderne che sieno, e per
diversissime che vogliano essere da quelle che correvano quando la lingua greca
era in fiore. E simile in ciò credo che le sia la tedesca. Abbia cura di
conservarsi tale.
Perocchè
tali son tutte ne’ loro principii. Ma perfezionandosi, e però civilizzandosi, e
pigliando commercio con lingue e letterature e nazioni straniere, e così
impinguandosi di parole forestiere che per lei divengono radicali, dismette l’uso
della composizione ec.: e per pochi momenti supplisce bene a’ suoi bisogni
colle radici pigliate in prestito, ma di lì a poco, o diviene una stalla d’Augia
a forza di stranierismi moltiplicati in infinito, o volendosi conservar pura,
non può più parlare, perchè s’è lasciato cadere il solo istrumento che avesse
per supplire alla novità delle idee conservandosi pura, cioè il coltivare e far
fruttare le sue proprie radici. E forse perciò conservarono sempre i greci
questa facoltà, perchè poco pigliarono da’ forestieri, o non volendo prenderne
per la nota loro superbia nazionale, o perchè realmente non si trovavano
intorno altra nazione letterata e [2450]civile, dalla quale potessero
prendere, sebbene con molte commerciarono, ma la letteratura le scienze e la
civiltà de’ greci, da’ tempi noti in poi, furono sempre puramente greche.
E così
accadde cosa osservabilissima: cioè che la lingua greca per essersi conservata
pura, divenne e si mantenne (ed ancora si mantiene) la più potente e ricca e
capace di tutte le lingue occidentali. Non per altro se non perch’ella
restringendosi in se sola, non lasciò mai di porre a frutto e a moltiplico il
proprio capitale. E viceversa per esser divenuta così potente, si mantenne pura
più lungo tempo di qualunqu’altra (ancor dopo ch’ebbe a fare con una nazione
civile e signora sua, come la latina). Giacchè non ebbe alcun bisogno nè di
parole nè di modi stranieri per esprimere qualunque cosa occorresse: e i greci
avendo alle mani facile e pronto e spendibile il capitale proprio, non si
curarono dell’altrui, il quale sarebbe stato loro più difficile a usare, e
manco manuale del proprio. L’opposto di quello che avviene a noi per aver
trasandato di porre a frutto il nostro bellissimo e vastissimo capitale, che
benchè sia tale (oltre che la maggior parte ce n’è ignota), non basta [2451]nè
potrà mai bastare al continuo e sempre nuovo bisogno della società favellante,
se non lo faremo fruttare, come non solo concede amplissimamente, ma porta e
vuole l’indole e la natura sua.
Beato
colui che pone i suoi desiderii, e si pasce e si contenta de’ piccoli diletti,
e spera sempre da vantaggio, senza mai far conto della propria esperienza in
contrario, nè quanto al generale, nè quanto ai particolari. E per conseguenza
beati gli spiriti piccoli, o distratti, e poco esercitati a riflettere.
(30.
Maggio 1822.)
Alla
p.2252. L’idea dell’eternità entra in quella di ultimo, finito, passato, morte,
non meno che in quella d’infinito, interminabile, immortale. E vedi altro mio
pensiero già scritto in questo proposito, (30. Maggio 1822.) cioè p.2242. 2251.
Quanto
sia più naturale e semplice l’andamento della lingua greca (tuttochè
poeticissima), che non è quello della latina; e quindi quanto men proprio suo, e quanto la lingua greca dovesse esser meglio disposta all’universalità
che non era la lingua latina, si può vedere anche da questo.
[2452]Sebben l’italiana e la spagnuola
son figlie vere e immediate della latina, pure è molto ma molto più facile di
tradurre naturalmente e spontaneamente in italiano o in ispagnuolo gli ottimi
autori greci, che gli ottimi latini. E tanto è più facile quanto i detti autori
greci son più buoni, cioè più veramente e puramente greci. Siccome per lo contrario,
quanto ai latini, è tanto meno difficile, quanto meno son buoni, cioè meno
latini, come p.e. Boezio tradotto con molta naturalezza dal Varchi, e le Vite
de’ SS. Padri (che non hanno quasi più nulla del latino) tradotte egregiamente
dal Cavalca, e gli Ammaestram. degli antichi da F. Bartolomeo da S. Concordio
ec. ec. Cicerone, Sallustio, Tito Livio, difficilissimamente pigliano un sapore
italiano, se non lasciano affatto l’indole e l’andamento proprio. Al contrario
di Erodoto, Senofonte, Demostene, Isocrate ec. Ora essendo l’andamento delle
lingue moderne generalmente assai più piano e meno figurato ec. delle antiche,
questo è un segno che la lingua greca, adattandosi alle moderne molto più della
latina, doveva esser molto più semplice e naturale nella sua costruzione e
forma.
(30.
Maggio 1822.)
[2453]Se l’uomo sia nato per pensare o
per operare, e se sia vero che il miglior uso della vita, come dicono alcuni,
sia l’attendere alla filosofia ed alle lettere (quasi che queste potessero
avere altro oggetto e materia che le cose e la vita umana, e il regolamento
della medesima, e quasi che il mezzo fosse da preferirsi al fine),
[1]
osservatelo anche da questo. Nessun uomo fu nè sarà mai grande nella filosofia
o nelle lettere, il quale non fosse nato per operare più, e più gran cose degli
altri; non avesse in se maggior vita e maggior bisogno di vita che non ne hanno
gli uomini ordinarii; e per natura ed inclinazione sua primitiva, non
fosse più disposto all’azione e all’energia dell’esistenza, che gli altri non
sogliono essere. La Staël lo dice dell’Alfieri (Corinne, t.1. liv. dern.), anzi
dice ch’egli non era nato per iscrivere, ma per fare, se la natura de’ tempi
suoi (e nostri) glielo avesse permesso. E perciò appunto egli fu vero
scrittore, a differenza di quasi tutti i letterati o studiosi italiani del suo
e del nostro tempo. Fra’ quali siccome nessuno o quasi nessuno è nato per fare
(altro che fagiolate), perciò nessuno o quasi nessuno è [2454]vero
filosofo, nè letterato che vaglia un soldo. Al contrario degli stranieri,
massime degl’inglesi e francesi, i quali (per la natura de’ loro governi e
condizioni nazionali) fanno, e sono nati per fare più degli altri. E quanto più
fanno, o sono naturalmente disposti a fare, tanto meglio e più altamente e
straordinariamente pensano e scrivono.
(30.
Maggio 1822.)
Grazia
dallo straordinario. I nei che altro sono se non difetti, e false produzioni
della cute? E non sono stati considerati lungo tempo come bellezze? (Anzi così
anche oggi volgarmente si sogliono chiamare). E le donne col porsegli dintorno
non facevano insomma altro che fingersi dei difetti, e fabbricarseli
appostatamente, per proccurarsi grazia e bellezza.
Qual
fosse l’opinione di Socrate, o di Senofonte, e anche degli altri antichi, circa
quelle arti e mestieri che da gran tempo si stimano e sono veramente necessarii
all’uso del viver civile, anzi parte, alimento ec. della civilizzazione, e che
intanto nocciono alla salute e al viver fisico, e in oltre all’animo, di chi
gli esercita, v. l’Econom. di Senofonte cap.4. § .2.3. e cap.6. §.5.6.7.
[2455]TÇnd¢svm‹tvnJhlunom¡nvn (si corpora effeminentur), kaÜaÞcuxaÜpolçŽr=vstñteraigÛgnontai. Socrate ap. Senofon. Econom. c.4.
§.2.
(3.
Giugno. 1822.)
Alla
p.2451. L’Alfieri fu arditissimo e frequentissimo formatore di parole derivate
o composte nuovamente dalle nostrali, e sebbene io non credo ch’egli, facendo
questo avesse l’occhio alla lingua greca, nondimeno questo suo costume dava
alla lingua italiana una facoltà e una forma similissima (materialmente) all’una
delle principalissime e più utili facoltà e potenze della lingua greca. Io non
cercherò s’egli si servisse di questo mezzo d’espressione colla misura e
moderatezza e discrezione che si richiede, nè se guardasse sempre alla
necessità o alla molta utilità, nè anche se tutti i suoi derivati e composti, o
se la maggior parte di loro sieno ben fatti. Ma li porto per esempio acciocchè,
considerandoli, si veda più distintamente e per prova, quante idee sottili o
rare o non mai ancora precisamente significate, quante cose difficilissime e
quasi impossibili ad esprimersi in altro modo (anche con voci forestiere), si
esprimano chiarissimamente e precisamente e facilmente con questo mezzo, senza
punto uscire della lingua nostra, e senza quindi nuocere alla purità. Certo [2456]è
che quando l’Alfieri chiama il Voltaire Disinventore od inventor del nulla,
(vere principali e proprie qualità ed attributi della sapienza moderna) quel disinventore dice tanto e tal cosa, quanto e quale appena si potrebbe dire per via d’una
lunga circollocuzione, o spiegare e sminuzzare pazientemente, stemperatamente e
languidamente in un periodo.
(3.
Giugno. 1822.)
La
religion Cristiana fra tutte le antiche e le moderne è la sola che o
implicitamente o esplicitamente, ma certo per essenza, istituto, carattere e
spirito suo, faccia considerare e consideri come male quello che naturalmente
è, fu, e sarà sempre bene (anche negli animali), e sempre male il suo
contrario; come la bellezza, la giovanezza, la ricchezza ec. e fino la stessa
felicità e prosperità a cui sospirano e sospireranno eternamente e
necessariamente tutti gli esseri viventi. E li considera come male
effettivamente, perciocchè non si può negare che queste tali cose non sieno
molto pericolose all’anima, e che le loro contrarie (come la bruttezza ec.) non
liberino da infinite occasioni di peccare. E perciò quelli che fanno
professione di devoti chiamano fortunati i brutti ec. e considerano la
bruttezza ec. come un bene dell’uomo, una fortuna della società, e come una
condizione, una qualità, una [2457]sorte desiderabilissima in questa
vita. Similmente dico della prosperità, la quale rende naturalmente superbi,
confidenti in se stessi e nelle cose, e quindi distratti e poco adattati all’abito
di riflettere (ch’è necessarissimo alla cura della salute eterna), e dà molto
attaccamento alle cose di questa terra. E quindi l’opinione che le disgrazie (o
come le chiamano, le croci), sieno favori di Dio, e segni della benevolenza
divina: opinione stranissima e affatto nuova; inaudita in tutta l’antichità e
presso tutte le altre religioni moderne (tutte le quali consideravano anzi il
fortunato solo, come favorito di Dio, onde fra gli antichi beato, mak‹riow ölbiow ec. era un titolo di rispetto e di
lode, e tanto a dire come sanctus, o come vir iustus etc. L’etimologia
di eédaÛmvn è favorito dagli Dei, o che ha buon Dio cioè favorevole. Al contrario dusdaÛmvn, infelice, che ha mali
Dei. V. p.2463. V. i Lessici: e nella stessa religion cristiana da
principio si chiamavano beati, anche vivendo, gli uomini più distinti o
per virtù o per dignità, come oggi si chiama Beatitudine il Papa);
inaudita presso qualunque popolo non civile; e finalmente tale ch’io non so se
verun’altra opinione possa esser più dirittamente contraria alla natura
universale delle cose, e a tutto l’ordine dell’esistenza [2458]sensibile.
Alla
p.1660. mezzo. Non so bene se il Salviati o il Salvini sia quel che dice dell’antica
falsa, e latina ortografia degl’italiani, e particolarmente dell’et
non mai pronunziato se non e, o ed. Tutte le lingue nascono, com’è
naturale appoco appoco, e per lungo tempo non sono adattabili alla scrittura e
molto meno alla letteratura. Cominciando ad adattarle alla scrittura, l’ortografia
n’è incertissima, per l’ignoranza di quei primi scrittori o scrivani, che non
sanno bene applicare il segno al suono: massime quando si servano, com’è il
solito, di un alfabeto forestiero, quando è certo che ciascuna nazione o lingua
ha i suoi suoni particolari, che non corrispondono a quelli significati dall’alfabeto
di un’altra nazione. Venendo poi la letteratura, l’ortografia piglia una certa
consistenza, ed è prima cura de’ letterati di regolarla, di ridurla sotto
principii fissi, e generali, e di darle stabilità. Ma anche questa opera è
sempre imperfettissima ne’ suoi principii. Per lo più la letteratura di una
nazione deriva da quella di un’altra. Quindi anche l’ortografia in quei
principii [2459]segue la forma e la stampa di quella che i letterati
hanno sotto gli occhi, troppo deboli ancora per essere originali, e per
immaginar da se, e seguire e conoscer bene la natura particolare de’ loro
propri suoni ec.: le quali cose non son proprie se non di quello ch’è già o
perfezionato o vicino alla perfezione. Nel nostro caso poi, questa lingua
letterata, e di ortografia già regolatissima e costante, sopra la cui
letteratura s’andavano formando le moderne, era anche immediatamente madre
delle lingue moderne. E benchè queste (massime la francese), avessero perduto
molti de’ suoi suoni, e sostituitone, o aggiuntone molti altri, contuttociò la
somiglianza fra la madre e le figlie era tanta, e la loro derivazione da lei
era così fresca, che cominciando a scrivere e poi a coltivare queste lingue non
mai ancora scritte o coltivate, non si pensò di potersi servire d’altra
ortografia che della latina. La quale ortografia già esisteva, e la nostra s’avea
da creare: ma nessuna cosa si crea in un momento, massime che tante altre ve n’erano
da creare allo [2460]stesso tempo, le quali occupavano tutta l’attenzione
di quei primi formatori delle favelle moderne. Uomini che ad una materia
putrida (giacchè tutte erano barbarissime corruzioni) aveano a dar vita, e
splendore.
Quindi l’ortografia
italiana del trecento, anche quella dei primi letterati, era tutta barbaramente
latina. Si può vedere il manoscritto della divina Commedia fatto di pugno del
Boccaccio e del Petrarca, e pubblicato quest’anno o il passato da una
Biblioteca di Roma. Quindi conservato l’h che niun italiano pronunziava
più (se non colla g, e c); quindi l’y, lettera inutile,
avendo perduta la sua antica pronunzia di u gallico; quindi il k,
ec. ec. E siccome per lunghissimo tempo, anche dopo stabilita la nostra letteratura,
si durò a credere che il volgare non fosse capace di scrittura e d’uso più che
tanto nobile e importante (e per molto tempo realmente non lo fu, perchè non v’era
applicata); così fino al cinquecento, e massimamente fino a tutta la sua prima
metà, [2461]si seguitò a scrivere l’italiano, con ortografia
barbaramente latina, o non credendolo capace d’ortografia propria, o non
sapendogliela ancora trovare, e ben regolare e comporre, o pedantescamente
volendo ritornare il volgare al latino quanto più si potesse. Vedi la edizione
della Coltivazione dell’Alamanni fatta in Parigi 1546. da Rob. Stefano, sotto
gli occhi dell’autore, e ristampata colla stessa ortografia in Padova, Volpi
1718, e Bologna 1746. e quella delle Api del Rucellai, Venez. 1539, che fu la
prima, (per Giananton. de’ Nicolini da Sabio) ristampata parimente ne’ detti
luoghi. Dice il Volpi che quella maniera e di scrivere e di puntare che
vedesi all’Alamanni esser piacciuta, è alquanto diversa non solo da quella che
oggidì s’usa, ma da quella eziandio che a tempi di lui universalmente si
costumava. (G. A. V. a’ Lettori). Vedi anche le lettere del Casa al
Gualteruzzi, da un ms. originale, nelle sue op. t.2. Venez. 1752. Io non so se
sia vero, nè se quella del Rucellai p.e. se ne diversifichi notabilmente: non
mi par che l’edizioni italiane di que’ tempi (come quella delle Rime del
Firenzuola in Firenze, cit. nel Voc.) [2462]ne vadano molto lungi: ma se
ciò fosse, verrebbe dalla dimora dell’Alamanni in Francia. V. p.2466.
In somma
la lingua italiana pericolava di stabilirsi e radicarsi irreparabilmente in
quella stessa imperfezione d’ortografia, in cui si veniva formando, e poi per
sempre si radicò la lingua francese. Fortunatamente non accadde, anzi ell’ebbe
la più perfetta ortografia moderna: non lettere scritte le quali non si
pronunzino: non lettere che si pronunzino e non si scrivano: ciascuna lettera
scritta, pronunziata sempre e in ogni caso, come si pronunzia recitando l’alfabeto
ec. V. p.2464.
Cagioni
di questo vantaggio furono l’infinita capacità, acutezza e buon gusto d’infinite
persone in quel secolo, e l’altre circostanze ch’ho notate altrove. Alle quali
si può e si dee forse aggiungere che i suoni della lingua latina, e
generalmente la pronunzia e l’uso di essa, sopra la cui ortografia si formava
naturalmente la nostra, era molto meno diverso dall’uso e pronunzia nostra e
spagnuola, di quel che sia dal francese. [2463]Quindi essendo tutte tre
queste ortografie formate da principio egualmente sulla latina, le due prime
che poco avevano da mutarla per conformarla all’uso loro, facilmente la
corressero (massime l’italiana) e ve l’uniformarono; ma la francese che avrebbe
dovuto quasi trovare una nuova maniera di scrivere (essendo nella pronunzia,
come in ogni altra parte, la più degenere figlia della latina), ed anche
trovare in parte un nuovo alfabeto (come per le e mute ec.), fu
incorrigibile.
Fra
tanto queste osservazioni si debbono applicare a dimostrar con un esempio
recente, quanto debbano essere state alterate le primitive lingue nell’applicarle
alla scrittura e all’alfabeto o proprio o forestiero, e nella creazione della
loro ortografia, e quanto poco ci possiamo fidare del modo in cui esse ci ponno
essere pervenute, cioè pel solo mezzo della scrittura.
Alla
p.2457. marg. Qual nazione, se non dopo fatta Cristiana, non riputò per doni [2464]di
Dio, e segni del favor celeste le prosperità, e per gastighi di Dio, e segni
dell’odio suo le sventure? (Onde fra’ più antichi, e fra gli stessi ebrei, come
i lebbrosi ec., si fuggiva con orrore l’infelice come scellerato, e quando
anche non si sapesse, o non si fosse mai saputa da alcuno la menoma sua colpa,
si stimava reo di qualche occulto delitto, noto ai soli Dei, e la sua
infelicità s’aveva per segno certo di malvagità in lui, e se l’avevano creduto
buono, vedendo una sua sciagura, credevano di disingannarsene.). Al contrario
accadde nella nostra religione, la quale, se non altro, definisce per maggior
favore, e segno di maggior favore di Dio l’infelicità, che la prosperità.
(5.
Giugno. 1822.)
Alla
p.2462. mezzo - non elementi dell’alfabeto inutili, o che esprimano più d’un
suono indarno ec. come p.e. nello spagnuolo è inutile che il suono del j sia espresso anche nè più nè meno dal x avanti vocale, e dal g avanti l’e e l’i. E non solo inutile, ma in ispagnuolo produce
ancor molta confusione e varietà biasimevole [2465]e inutile nel modo di
scrivere una stessa parola, anche appresso un medesimo scrittore, in un
medesimo libro: sebbene io credo che la moderna ortografia spagnuola
(rettificata e resa più esatta, come tutte le altre, e come tutte le cose
moderne) sia emendata in tutto o in parte di questi difetti, e di queste
inutilità. Similmente la ç, o zedilla è un elemento inutile, e
produce confusione, e varietà dannosa. ec. ec.
I greci JeÝow, gli spagnuoli Tio, gl’italiani zio, esprimendo questi col Z, quelli col T, il suono del t aspirato che nè gli uni nè gli altri hanno. Donde questa parola così necessaria
e usuale e volgare in tutti i linguaggi, e usualissima e volgarissima nello
spagnuolo e nell’italiano; donde, dico, e per qual mezzo può esser passata dal
greco a questi volgari moderni, se non per mezzo del volgare latino, non
trovandosi nel latino scritto? L’avranno forse presa gli spagnuoli e gl’italiani
dal greco moderno, o da quello de’ bassi tempi (non si saprebbe con qual
mezzo), e avrebbe potuto divenir usuale e volgarissima e scacciar la parola
antica, [2466]una parola forestiera significante una cosa che
tuttogiorno s’era nominata e si nomina? E siccome si potrebbe dubitare che
alcune o tutte queste parole ch’io dimostro uniformi nel greco e ne’ nostri
volgari, ci fossero derivate per mezzo del francese ne’ bassi tempi, e il
francese l’avesse avute dalle colonie greche state anticamente in Francia ec.
del che ho discorso altrove, notate che questo JeÝow si trova in tutti i volgari
derivati dal latino, fuorchè appunto nel francese che da avunculus dice oncle.
Oltre che la qualità della cosa significata da questa voce, non permetterebbe,
come ho detto, ch’ella fosse passata così tardi, e potuta stabilirsi ne’ nostri
volgari in luogo dell’antica denominazione; se questa, cioè, non fosse antica e
antichissima. Vedi però il Forcell. il Gloss. i Diz. franc. ec. (8. Giugno
1822.). V. anche calare a cui la Crusca pone per greco xaln.
Alla p.2462.
principio. Si scrivevano ancora (massime più anticamente, chè nel cinquecento
la maggior dottrina dava un poco più di regola) le parole italiane o non latine
in modo latino, [2467]o le parole latine (italianate) in modo non
latino, e non conveniente all’italiano, come con lettere non italiane che in
quelle tali parole non ci andavano neppure in latino: p.e. ymago o ymagine ec. Effetto dell’ignoranza in cui si era anco riguardo al latino e alla sua
buona ortografia, (quando infatti non si sapeva di gran lunga bene nè pur la
lingua latina, e i codici poi erano scorrettissimi ec. e pochi confronti s’eran
potuti fare ec.) o del cattivo modo di scriver latino a quei tempi, e dell’imperfezione
e infanzia dell’ortografia nostrale. Queste osservazioni serviranno a spiegare
il perchè p.e. nella lingua francese, le imperfezioni dell’ortografia molte
volte non paia ch’abbiano a far niente coll’ortografia latina, scrivendosi
malamente anche delle parole non venute dal latino; e altre venute dal latino
scrivendosi in maniera discordante così dalla buona ortografia latina, come
dalla pronunzia francese. Intendo parlare delle parole francesi ch’erano in uso
anche anticamente, perchè le più moderne, di qualunque origine siano, già si sa
che nello scriverle s’è seguito il costume di quella tale imperfetta ortografia
ch’era già stabilita. Ma la prima causa di questa imperfezione, fu secondo me,
quella che ho detta, [2468]cioè la cattiva, indebita e puerile
applicazione dell’ortografia latina (anch’essa in gran parte falsa e mal
conosciuta, come anche la lingua latina, e cattiva) all’ortografia volgare.
Nelle
annotazioni alle mie Canzoni (Canzone 6. stanza 3. verso 1.) ho detto e
mostrato che la metafora raddoppia o moltiplica l’idea rappresentata dal vocabolo.
Questa è una delle principali cagioni per cui la metafora è una figura così
bella, così poetica, e annoverata da tutti i maestri fra le parti e gl’istrumenti
principalissimi dello stile poetico, o anche prosaico ornato e sublime ec.
Voglio dire ch’ella è così piacevole perchè rappresenta più idee in un tempo
stesso (al contrario dei termini). E però ancora si raccomanda al poeta
(ed è effetto e segno notabilissimo della sua vena ed entusiasmo e natura
poetica, e facoltà inventrice e creatrice) la novità delle metafore. Perchè
grandissima, anzi infinita parte del nostro discorso è metaforica, e non perciò
quelle metafore di cui ordinariamente si compone risvegliano più d’una semplice
idea. [2469]Giacchè l’idea primitiva significata propriamente da quei
vocaboli traslati è mangiata a lungo andare dal significato metaforico il quale
solo rimane, come ho pur detto l. c. E ciò quando anche la stessa parola non
abbia perduto affatto, anzi punto, il suo significato proprio, ma lo conservi e
lo porti a suo tempo. P.e. accendere ha tuttavia la forza sua propria.
Ma s’io dico accender l’animo, l’ira ec. che sono metafore, l’idea
che risvegliano è una, cioè la metaforica, perchè il lungo uso ha fatto che in
queste tali metafore non si senta più il significato proprio di accendere,
ma solo il traslato. E così queste tali voci vengono ad aver più significazioni
quasi al tutto separate l’una dall’altra, quasi affatto semplici, e che tutte
si possono omai chiamare ugualmente proprie. Il che non può accadere
nelle metafore nuove, nelle quali la moltiplicità delle idee resta, e si sente
tutto il diletto della metafora: massime s’ell’è ardita, cioè se non è presa sì
da vicino che le idee, benchè diverse, [2470]pur quasi si confondano
insieme, e la mente del lettore o uditore non sia obbligata a nessun’azione ed
energia più che ordinaria per trovare e vedere in un tratto la relazione il
legame l’affinità la corrispondenza d’esse idee, e per correr velocemente e
come in un punto solo dall’una all’altra; in che consiste il piacere della loro
moltiplicità. Siccome per lo contrario le metafore troppo lontane stancano, o
il lettore non arriva ad abbracciare lo spazio che è tra l’una e l’altra idea
rappresentata dalla metafora; o non ci arriva in un punto, ma dopo un certo
tempo; e così la moltiplicità simultanea delle idee, nel che consiste il
piacere, non ha più luogo.
(10.
Giugno 1822.). V. p.2663. iu.1822
Proma voce latina, feminino sustantivo
di promus, è da aggiungersi al Lessico e all’Appendice del Forcellini.
Il Forcellini dice: Promus i, m. (cioè mascolino)
semplicemente, e non ha esempi del feminino, se non uno in aggettivo. Sta in un
frammento del libro primo Œconomicorum di Cicerone, portato da
Columella, e nella mia ediz. di Senofonte (Lipsiae 1804, cura Car. Aug. Thieme,
ad recensionem Wellsianam) t.4. p.407. Vi si legge haec primo tradidimus.
Errore. Leggi promae. Corrisponde [2471]al t»tamÛa
di Senofonte Oikonomikoè c.9. art.10. taètad¢t»tamÛ&paredÅkamen. E che anche Cicerone l’abbia
detto in femminino, e non v. g. promo, apparisce da quel che segue:
EAMQUE admonuimus etc., cioè promam. Questo errore è anche nella
mia ediz. di Columella l.12. c.3. (forte al.4.) dov’è portato il detto passo.
(10.
Giugno 1822.)
Alla
inclinazione da me più volte notata e spiegata, che gli uomini hanno a
partecipare con altri i loro godimenti o dispiaceri, e qualunque sensazione
alquanto straordinaria, si dee riferire in parte la difficoltà di conservare il
secreto che s’attribuisce ragionevolmente alle donne e a’ fanciulli, e ch’è propria
altresì di qualunque altro è meno capace o per natura o per assuefazione di
contrastare e vincere e reprimere le sue inclinazioni. Ed è anche proprio pur
troppe volte degli uomini prudenti ed esercitati a stare sopra se stessi, i
quali ancora provano, se non altro, qualche difficoltà a tenere il segreto, e
qualche voglia interna di manifestarlo (anche con danno loro), quando sono sull’andare
del confidarsi con altrui, o semplicemente del conversare, o discorrere, [2472]o
chiaccherare. Dico lo stesso anche di quando il segreto non è d’altrui ma
nostro proprio, e quando noi vediamo che il rivelarlo fa danno solamente o
principalmente a noi, e come tale, ci eravamo proposto di tacerlo, e poi lo
confidiamo per isboccataggine.
Ma che
anche questa inclinazione, non sia naturale nè primitiva (come pare), ma
effetto delle assuefazioni, e dell’abito di società contratto dagli uomini
vivendo cogli altri uomini, lo provo e lo sento io medesimo, che quanto era
prima inclinato a comunicare altrui ogni mia sensazione non ordinaria
(interiore o esteriore), così oggi fuggo ed odio non solo il discorso, ma
spesso anche la presenza altrui nel tempo di queste sensazioni. Non per altro
se non per l’abito che ho contratto di dimorar quasi sempre meco stesso, e di
tacere quasi tutto il tempo, e di viver tra gli uomini come isolatamente e in
solitudine. Lo stesso si dee credere che avvenga ai solitari effettivi, ai
selvaggi, a quelli che o non hanno società o poca, e rara, all’uomo naturale
insomma, privo del linguaggio, o con poco uso del medesimo, al muto, a chi per
qualche accidente ha dovuto per lungo tempo viver lontano dal consorzio degli
uomini, come naufragi, pellegrini in luoghi di favella non conosciuta,
carcerati ec. frati silenziosi ec.
[2473]Alle ragioni da me recate in altri
luoghi, per le quali il giovane per natura sensibile, e magnanimo e virtuoso,
coll’esperienza della vita, diviene e più presto degli altri, e più
costantemente e irrevocabilmente, e più freddamente e duramente, e insomma più
eroicamente vizioso, aggiungi anche questa, che un giovane della detta natura,
e del detto abito, deve, entrando nel mondo, sperimentare e più presto e più
fortemente degli altri la scelleraggine degli uomini, e il danno della virtù, e
rendersi ben tosto più certo di qualunque altro della necessità di esser
malvagio, e della inevitabile e somma infelicità ch’è destinata in questa vita
e in questa società agli uomini di virtù vera. Perocchè gli altri non essendo
virtuosi, o non essendolo al par di lui, non isperimentano tanto nè così presto
la scelleraggine degli uomini, nè l’odio e persecuzione loro per tutto ciò ch’è
buono, nè le sventure di quella virtù che non possiedono. E sperimentando
ancora le soverchierie e le persecuzioni degli altri, non si trovano così nudi
e disarmati per combatterle e respingerle, come si trova il virtuoso. [2474]In
somma il giovane di poca virtù non può concepire un odio così vivo verso gli
uomini, nè così presto, com’è obbligato a concepirlo il giovane d’animo nobile.
Perchè colui trova gli uomini e meno infiammati contro di se, e meno capaci di
nuocergli, e meno diversi da lui medesimo. Per lo che, non arrivando mai ad
odiare fortemente gli uomini, e odiarli per massima nata e confermata e
radicata immobilmente dall’esperienza, non arriva neppure così facilmente a
quell’eroismo di malvagità fredda, sicura e consapevole di se stessa,
ragionata, inesorabile, immedicabile ed eterna, a cui necessariamente dee
giungere (e tosto) l’uomo d’ingegno al tempo stesso e di virtù naturale.
Diciamo
tuttogiorno in volgare: venir voglia a uno d’una cosa, venirgli
pensiero, talento, desiderio, ec. ec. V. la Crusca e i Diz.
francesi e spagnuoli. Or chi ardirebbe di dir questo in latino? Chi non lo
stimerebbe un barbaro italianismo o volgarismo? Or ecco appunto una tal frase
parola per parola nel poema più perfetto del più [2475]perfetto ed
elegante poeta latino, e in un luogo che dovea necessariamente esser de’ più
nobili, cioè nel principio e invocazione delle Georgiche: (l.1. v.37.) Nec
tibi regnandi veniat tam dira cupido, Nè ti venga sì brutta voglia di regnare cioè nell’inferno. V. il Forcell. e il Gloss. se hanno niente al
proposito.
Dell’antica
fratellanza della lingua greca colla latina, ossia della comune origine d’ambedue,
e come in principio l’una non differisse dall’altra, ma fossero in Italia e in
Grecia una lingua sola, vedi un bel luogo di Festo portato dal Forcellini v. Graecus
in fine.
(14.
Giugno. 1822.)
Chi
negherà che l’arte del comporre non sia oggi e infinitamente meglio e più
chiaramente e distintamente considerata, svolta, esposta, conosciuta,
dichiarata in tutti i suoi principii, eziandio più intimi, e infinitamente più
divulgata fra gli uomini, e più nelle mani degli studiosi, e aiutata oltracciò
di molto maggior quantità di esempi e modelli, che non era presso gli antichi?
e massime presso quegli antichi e in quei secoli ne’ quali meglio e più
perfettamente e immortalmente si scrisse? Eppure [2476]dov’è oggi in
qualsivoglia nazione o lingua, non dico un Cicerone (quell’eterno e supremo
modello d’ogni possibile perfezione in ogni genere di prosa), non dico un Tito
Livio, ma uno scrittore che nella lingua e nel gener suo abbia tanto valore
quanto n’ha qualunque non degli ottimi, ma pur de’ buoni scrittori greci o
latini? E dov’è poi un numero di scrittori, non dico ottimi, ma buoni, uguale a
quello che n’hanno i greci e i latini? Trovatemelo, se potete, ponendo insieme
tutti i migliori scrittori di tutte le nazioni letterate, dal risorgimento
delle lettere sino a oggidì. E dico buoni precisamente in quel che spetta all’arte
del comporre, e del saper dire una cosa, e trattare un argomento con
tutta la perfezione di quest’arte. Dico buoni quanto alla lingua loro, qualunqu’ella
sia, e perfetti in essa e padroni, come fu Cicerone della latina, o come lo
furono gli altri scrittori latini e greci, men grandi di Cicerone in questo e
nel rimanente, ma pur buonissimi e classici. [2477]Dico buoni in questo
senso, giacchè non entro nell’arte del pensare, ec. E quel che dico de’
prosatori, dico anche de’ poeti, colle stesse restrizioni, e quanto al modo di
trattare e significare le cose immaginate: chè l’invenzione e l’immaginazione
in se stesse e assolutamente considerate, appartengono a un altro discorso.
Fatto
sta che oggi tutti sanno come vada fatto, e niuno sa fare. Niuno sa fare
perfettamente, e pochissimi passabilmente. E gli ottimi scrittori
moderni di qualunque lingua o tempo, appena si possono paragonare all’ultimo de’
buoni antichi. O se gli agguagliano in qualche parte o qualità, o se
anche li vincono, sottostanno loro grandemente in altre parti, e nell’effetto
dell’insieme, e nel complesso delle qualità spettanti all’arte del ben
comporre, e ben enunziare i propri sentimenti, e formare un discorso. Siccome
per l’opposto non è sì mediocre scolare di rettorica, il quale abbia pur letto
la rettorica del Blair, e non ne sappia, quanto al modo e alla ragione del ben
comporre, più di Cicerone.
[2478]Tant’è. Secondo l’osservazion del
Democrito Britanno Bacon da Verulamio tutte le facoltà ridotte ad arte
steriliscono, perchè l’arte le circonscrive. (Gravina, Della Tragedia, cap.40.
p.70. principio.). L’arte si trova sempre e perfezionata (ovvero inventata e
formata), e divulgata e conosciuta da tutti, in quei tempi nei quali meno si sa
metterla in pratica. A tempo d’Aristotele non v’erano grandi poeti greci: l’eloquenza
romana era già spirata a tempo di Quintiliano (il quale forse, in quanto al
modo di fare, se n’intendeva più di Cicerone). Lo stesso saper quel che va
fatto è cagione che questo non si sappia fare. Anche qui si verifica che il
troppo è padre del nulla, e che il voler fare è causa di non potere, ec. ec.
Gli scrupoli, i dubbi, i timori di cader ne’ difetti già ben conosciuti ec. ec.
legano le mani allo scrittore, e i più se ne disperano, e non seguendo nè i
precetti dell’arte, nè essendo più a tempo di seguir la natura propria già in
mille modi distorta, stravolta, e alterata dall’arte, scrivono, come vediamo,
pessimamente, benchè sappiano ottimamente quel che s’abbia da fare a scriver
bene.
[2479]Quanto prevaglia nell’uomo la
materia allo spirito, si può considerare anche dalla comparazione dei dolori.
Perocchè i dolori dell’animo non sono mai paragonabili ai dolori del corpo,
ragguagliati secondo la stessa proporzione di veemenza relativa. E sebben paia
molte volte a chi è travagliato da grave pena dell’animo, che sarebbe più
tollerabile altrettanta pena nel corpo; l’esperienza ragguagliata dell’una e
dell’altra può convincere facilmente chiunque sa riflettere che tra’ dolori
dell’animo e quelli del corpo, supponendoli ancora, relativamente, in un
medesimo grado, non v’è alcuna proporzione. E quelli possono esser superati
dalla grandezza o forza dell’animo, dalla sapienza ec. (lasciando stare che il
tempo consola ogni cosa), ma questi hanno forza d’abbattere e di vincere ogni
maggior costanza.
(15.
Giugno 1822.)
Molto
ragionevolmente s’ammira la ritirata dei diecimila greci, eseguita per
lunghissimo tratto d’un immenso paese nemico, e impegnato invano ad impedirla;
dal core del [2480]regno, a’ suoi ultimi confini. ec. Or che si dovrà
dire di una non ritirata, ma conquista di un regno anch’esso immenso, qual era
quello del Messico, eseguita non da diecimila, ma da mille, o poco più
spagnuoli, e in tanta maggior lontananza dal loro paese, e questa, di mare, ec.
ec.? Quanto più corre il tempo, tanto più cresce la differenza ch’è tra uomini
e uomini, e la superiorità degl’inciviliti sui barbari. Non erano così
differenti i Persiani dai greci, benchè differentissimi, nè così inferiori,
benchè sommamente inferiori, quanto i Messicani (benchè non privi nè di leggi,
nè di ordini cittadineschi e sociali, nè di regolato governo, nè anche di
scienza politica e militare ridotta a certi principii) per rispetto degli
spagnuoli. E principalmente nelle armi, i Persiani e i greci non differivano
gran cosa, laddove gli spagnuoli dai Messicani moltissimo. E così
rispettivamente nella Tattica.
[2481]N. N. diceva che gli ossequi ec. e
i servigi interessati rade volte conseguiscono l’intento loro, perchè gli
uomini sono facili a ricevere e difficili a rendere. (tutti ricevono
volentieri, e rendono mal volentieri e poco.) Ma eccettuava da questo numero
quelli che i giovani prestano talvolta alle vecchie ricche o potenti. E
soggiungeva che non v’ha lusinghe, ossequi o servigi meglio collocati di
questi, nè che più facilmente e più spesso ottengano il loro fine.
Grazia
dal contrasto. La medesima insipidezza o del carattere, o delle maniere, o de’
discorsi, o degli scherzi, sentimenti ec. in una persona bella, fa molte volte
effetto, ed è un charme tanto nelle donne rispetto agli uomini, come
viceversa. La stessa rozzezza, o una certa poca delicatezza di modi ec. è
spesse volte e per molti graziosa e attraente in una persona di forme delicate
ec.
(17.
Giugno. 1822.)
Ho
discorso altre volte della ferocia cagionata nell’uomo virtuoso, nel giovane,
ec. dalla risoluzione di commettere a occhi aperti [2482]un primo
delitto. Ho anche ragionato del danno involontariamente recato dal
Cristianesimo e dallo stabilimento e perfezionamento della morale, stante che
gli uomini (sempre inevitabilmente cattivi) operando oggi più chiaramente e
decisamente contro coscienza, sono peggiori degli antichi, e calpestando il
timore che hanno de’ gastighi dell’altra vita, ne divengono più feroci e più
terribili nel malfare, come persone condannate e disperate, ec. Aggiungo che l’uomo
il quale per la prima volta s’è risoluto a commettere un delitto, ha dovuto con
gran fatica e pena trionfare della propria coscienza, e delle proprie
abitudini: e si trova allora nell’atto di aver riportato questo trionfo. Il che
è cagione di una gran ferocia, simile a quella che dicono del leone, o d’altra
tal bestia salvatica, che va in furore, ed è più che mai terribile appena ch’ell’ha
gustato, o veduto il sangue d’altro animale. Perocchè l’uomo in quel punto è
come sparso e macchiato di sangue, cioè omicida [2483]della propria
coscienza. E generalmente l’esecuzione di qualunque proposito è tanto più
efficace ed energica ed infiammata ed avventata e pronta, quanto la risoluzione
è stata più faticosa e difficile, e quanta maggior pena e contrasto è costato a
formarla. Perocchè l’uomo teme di pentirsi, e s’avventa nell’esecuzione, come
fuggendo con grand’impeto e fretta e spavento dal proprio pensiero, che
dandogli luogo a discorrere ancora, potrebbe distorlo, o precipitarlo di nuovo
nell’irresoluzione, che l’uomo teme e odia naturalmente, e ch’è uno de’
principali travagli dell’animo. Massime quando l’effetto della risoluzione (o
sia il piacere, o sia l’utile, o sia la vendetta, o sia la soddisfazione di
qualsivoglia passione umana) lo tira e lo invita gagliardamente, ed egli teme
che il proprio pensiero gl’impedisca di cercarlo e di conseguirlo, e d’altra
parte desidera vivamente di non perderlo, e non privarsene per proprio difetto.
(17.
Giugno. 1822.)
[2484]I francesi non hanno poesia che non
sia prosaica, e non hanno oramai prosa che non sia poetica. Il che confondendo
due linguaggi distintissimi per natura loro, e tutti due propri dell’uomo per
natura sua, nuoce essenzialmente all’espressione de’ nostri pensieri, e
contrasta alla natura dello spirito umano: il quale non parla mai poeticamente
quando ragiona coll’animo riposato ec. come par che sieno obbligati di fare i
francesi, se vogliono scrivere in prosa che sia per loro elegante e spiritosa
ed ornata ec.
Quanto
sia vero che i talenti in gran parte son opera delle circostanze, vedasi che ne’
paesi piccoli è infinitamente maggiore che ne’ grandi, il numero delle persone
di grado agiato e comodo e (negli altri luoghi) colto e civile, che non hanno
il senso comune, e da’ quali non si può fidare l’esecuzione o il maneggio del menomo
affare ec. Lo stesso dico proporzionatamente delle città meno grandi, rispetto
alle più grandi, delle meno colte o socievoli rispetto alle più colte, delle
capitali dove tutti son obbligati [2485]a conversare, a trattar negozi
ec. rispetto alle città di provincia ec.
(19.
Giugno. 1822.)
Alla
p.2402. Qualunque inferiorità o svantaggio abbia un uomo o rispetto agli altri,
o rispetto a qualcuno in particolare, l’unico rimedio è dissimularlo
arditamente, costantemente e ostinatamente. E questo è ancora l’unico mezzo, se
lo svantaggio e il male è compassionevole, e se pur si trova in alcuno la
compassione, d’esserne compatito. Chi lo confessa per qualunque cagione, o
perchè creda non poterlo dissimulare (ch’è falso, ancor che sia visibile, o
notissimo, o in qualunque guisa manifesto), o per altro, e con ciò crede di
guadagnar compassione, e pensa che negandolo o proccurando di nasconderlo, e
mostrando di non avvedersene, gli altri lo debbano maggiormente disprezzare e
deridere, e non compatire, s’inganna a partito, che anzi questo è il modo
sicuro d’esserne disprezzato e deriso. L’uomo non lascia per qualunque cagione
di profittare del vantaggio ch’egli ha sopra gli altri [2486]uomini, o
sopra un tal uomo, se questi non fa grandissima forza perchè gli altri, quanto
è possibile, non s’accorgano o ricordino del suo svantaggio, o non se ne
possano profittare. E perciò dev’egli operare e portarsi sempre come se quello
svantaggio non esistesse, o come s’egli non se n’avvedesse, e mostrare affatto
di non sentirlo; e proccurare anche di far quelle cose che più si disdicono ec.
a’ suoi pari rispetto al detto svantaggio. Quanto sono maggiori gli svantaggi
che s’hanno, tanto più bisogna che l’individuo stia per se stesso. Perocchè gli
altri uomini non istaranno mai per lui, e quel che desiderano e vogliono
principalmente si è ch’egli si confessi loro inferiore. Il che dev’egli sempre
fermamente ricusare.
Ho detto altrove del kalòw k™gaJòw de’ greci, come dimostri il
sentimento e la forza ch’aveva in quella nazione la bellezza, e la sublimità
che le attribuivano, pigliandola per parte e nome di virtù. Aggiungi l’uso
della loro lingua di chiamar kalŒ tutte le cose buone, oneste,
virtuose, utili. V. fra gli altri, Senof. ƒApomn. b. gƒ. kef. hƒ. Alla immaginazione degl’italiani
(come le sopraddette cose a quella de’ greci) si deve sotto lo stesso aspetto
attribuire l’uso che fanno [2487]delle parole significanti la grazia esterna per dinotare la probità, onestà, bontà ec. de’ costumi: uomo DI
GARBO, GALANTuomo.
(21.
Giugno. 1822.)
Quel che
si dice, ed è verissimo, che gli uomini per lo più si lasciano governare dai
nomi, da che altro viene se non da questo che le idee e i nomi sono così
strettamente legati nell’animo nostro, che fanno un tutt’uno, e mutato il nome
si muta decisamente l’idea, benchè il nuovo nome significhi la stessa cosa?
Splendido esempio ne furono i romani, esecratori del nome regio, i quali non
avrebbero tollerato un re chiamato re, e lo tollerarono chiamato imperatore,
dittatore, ec. e dichiarato inviolabile (cosa nuova) col nome vecchio della
potestà tribunizia. E che non avrebbero tollerato un re così detto, si vede.
Perocchè Cesare il quale, bench’avesse il supremo comando, pur sospirava quel
nome, non parendoli essere re, se non fosse così chiamato, (e ciò pure per la
sopraddetta qualità dell’animo nostro, bench’egli fosse spregiudicatissimo),
fattosi [2488]offerire la corona da Antonio ne’ Lupercali, fu costretto
rigettarla esso stesso da’ tumulti ed esecrazioni di quel popolo già vinto e
schiavo, e che poi chiamato di nuovo alla libertà, non ci venne. E gl’imperatori
che furono dopo, e che da principio (cioè finchè il nome d’imperatore non fu
divenuto anche nella immaginazion loro e del popolo, lo stesso e più che re)
ebbero lo stesso desiderio di Cesare, non crederono che quel popolo domo si
potesse impunemente ridurre a sostenere il nome di re, benchè non dubitarono di
fargli avere un re e di fargli tollerare ed anche amare la cosa significata da
questo nome.
Alla
p.2414. fine. Tutti gli uomini e tutti gli animali amano se stessi nè più nè
meno secondo la misura ed energia della loro vitalità. Quindi non mi par più
vero quel ch’io dico altrove, che la quantità dell’amor proprio sia
precisamente uguale in ciascun vivente. Perocchè le diverse specie di viventi,
e i diversi individui d’una medesima specie, e questi medesimi individui in
diversi tempi e circostanze [2489]hanno relativamente diverse somme di
vitalità. Come altre specie hanno più spiriti, altre meno. E fra queste l’umana
ne ha più di tutte. Ma fra gli uomini altri n’hanno più, altri meno: ed anche
naturalmente questi nasce con più, questi con meno talento.
Di più l’amor
proprio essendo una qualità del vivente, e queste qualità, come ho provato in
più luoghi, essendo disposizioni, e queste disposizioni conformabili, e che
possono fruttificare e produrre delle facoltà, e questo massimamente nell’uomo,
ne segue che l’amor proprio, specialmente nell’uomo, è conformabile e
coltivabile come le altre qualità. Anzi tanto più quanto egli abbraccia tutte
le qualità dell’animo del vivente. Quindi anche l’amor proprio fa
progressi, come ne fa lo spirito umano, ed è maggiore non solo in una specie o
individuo naturalmente più vivo e sensitivo, ma anche in un individuo colto
rispetto ad uno non colto, in un secolo colto rispetto [2490]ad un altro
meno colto, in una nazione civile rispetto a una barbara, e in uno individuo
medesimo, è maggiore dopo lo sviluppo delle sue qualità o disposizioni
sensitive, sentimento, vitalità, ingegno, è maggiore, dico, che non era prima.
E
siccome ho provato che l’infelicità dell’animale è sempre in ragion diretta
dell’attività del suo amor proprio, così resta chiaro, e perchè l’uomo sia
naturalmente meno felice degli altri animali, e perchè a misura ch’egli s’incivilisce,
il che accresce di mano in mano l’attività dell’amor proprio, egli divenga ogni
giorno più infelice, necessariamente, e quasi per legge matematica.
Che poi
l’amor proprio sia conformabile, coltivabile, modificabile, sviluppabile,
suscettivo d’incremento, e di maggiore o minore attività e influenza, si farà
chiaro considerando l’amor proprio, come una passione. E infatti lo è, anzi non
v’è passione che non sia amor proprio, e tutte sono un effetto suo [2491]non
distinto dalla causa, e non esistente fuor di lei, la quale opera ora così, e
si chiama superbia, ora così, e si chiama ira, ed è sempre una passione sola,
primitiva, essenziale. Dimodo che le passioni sono piuttosto azioni ch’effetti
dell’amor proprio, cioè non sono figlie sue in maniera che ne ricevano un’esistenza
propria, e separata o separabile da lui.
Or p.e.
l’ira o l’impazienza del proprio male, non è ella modificabilissima e
diversissima, non solo in diverse specie, o individui, ma in un medesimo
individuo, secondo le circostanze? Ponetelo nelle sventure ed assuefatecelo.
Sia pure impazientissimo per natura; col tempo e coll’assuefazione, diviene
pazientissimo. (Testimonio io per ogni parte di questa proposizione). Fate che
questo medesimo non abbia mai provato sventure, o assuefatelo di nuovo alla
prosperità, o supponete in una di queste due circostanze un altro individuo, e
sia egli di natura mansuetissima. Ogni menomo male lo pone in impazienza. Or
qual effetto più sostanziale dell’amor proprio, che l’impazienza del male di
questo sè che si ama? E pur questa [2492]impazienza è maggiore e
minore secondo le nature, le specie, gl’individui, e le circostanze e le
assuefazioni di un medesimo individuo. Così dunque l’amor proprio del qual essa
è opera.
(22.
Giugno. 1822.)
Intorno
al suicidio. È cosa assurda che secondo i filosofi e secondo i teologi, si
possa e si debba viver contro natura (anzi non sia lecito viver secondo natura)
e non si possa morir contro natura. E che sia lecito d’essere infelice contro
natura (che non avea fatto l’uomo infelice), e non sia lecito di liberarsi
dalla infelicità in un modo contro natura, essendo questo l’unico possibile,
dopo che noi siamo ridotti così lontani da essa natura, e così
irreparabilmente.
Il fatto
sta così e non si può negare. La somma della moralità pratica era ed è tanto
maggiore presso gli antichi, i pagani, i selvaggi, che presso i moderni, i
Cristiani, gl’inciviliti, quanto la somma della morale teorica, e la perfetta
cognizione, definizione, analisi e propagazione della medesima è maggiore
presso questi che presso quelli. E nella stessa [2493]proporzione si
deve discorrere anche oggidì de’ Cristiani più rozzi, e meno (o più
confusamente) istruiti de’ doveri sociali ed umani, per rispetto alla gente più
colta e addottrinata ne’ medesimi doveri.
Nè il
titolo di filosofo nè verun altro simile è tale che l’uomo se ne debba
pregiare, nemmeno fra se stesso. L’unico titolo conveniente all’uomo, e del
quale egli s’avrebbe a pregiare, si è quello di uomo. E questo titolo
porterebbe che chi meritasse di portarlo, dovesse esser uomo vero, cioè secondo
natura. In questo modo e con questa condizione il nome d’uomo è veramente da
pregiarsene, vedendo ch’egli è la principale opera della natura terrestre, o
sia del nostro pianeta, ec.
(24.
Giugno. dì del Battista. 1822.)
L’amor
proprio, il quale, come ho dimostrato più volte, è necessaria o quasi
necessaria sorgente d’infelicità, era però (oltre l’essere una essenziale conseguenza
e parte [2494]dell’esistenza sentita e conosciuta dall’esistente)
necessario ancora e indispensabile alla felicità. Come si può dare amor della
felicità senz’amor di se stesso? anzi questi due amori sono precisamente una
cosa sola con due nomi. E come si potrebbe dar felicità senza amor di felicità?
Giacchè l’animale non può godere e compiacersi di quel che non ama. Dunque non
amando la felicità, non potrebbe goderla nè compiacersene. Dunque quella non
sarebbe felicità, ed egli non la potrebbe provare. Dunque l’animale, se non
amasse se stesso, non potrebbe esser felice, e sarebbe essenzialmente incapace
della felicità, e in disposizione contraddittoria colla natura di essa. Quindi
si deve scusar la natura, e riconoscere che sebbene l’amor proprio produce
necessariamente l’infelicità (maggiore o minore), la natura non ha però
sbagliato nell’ingenerarlo ai viventi, essendo necessario alla felicità, e però
il suddetto [2495]inconveniente era inevitabile come tanti altri, e
deriva come tanti altri da una cosa ch’è un bene, e fatta per bene.
(24.
Giugno. 1822.)
Quanto
sia vero che l’amor proprio è cagione d’infelicità, e che com’egli è maggiore e
più attivo, maggiore si è la detta infelicità, si dimostra per l’esperienza
giornaliera. Perocchè il giovane non solo è soggetto a mille dolori d’animo, ma
incapace ancora di godere i maggiori beni del mondo, e di goderli e desfrutarlos più che sia possibile, e nel miglior modo possibile, finchè il suo amor
proprio, a forza di patimenti, non è mortificato, incallito, intormentito.
Allora si gode qualche poco. Cosa osservata. Com’è anche osservatissimo che l’uomo
è tanto più infelice quanto ha più e più vivi desiderii, e che l’arte della
felicità consiste nell’averne pochi e poco vivi ec. (Ch’è appunto la cagione
per cui il giovane nel predetto stato, con [2496]un ardore incredibile
che lo trasporta verso la felicità, con la maggior forza possibile per poter
gustare e sostenere i piaceri e anche fabbricarseli coll’immaginazione,
proccurarseli coll’opera ec.; in un’età a cui tutto sorride, e porge quasi
spontaneamente i diletti; contuttochè sia privo del disinganno, e però veda le
cose sotto il più bell’aspetto possibile, e di più essendo nuovo e inesperto
dei piaceri, sia ancor lontano e ben difeso dalla sazietà, e capace di dar peso
a ogni godimento, non gode mai nulla, e pena più d’ogni altro, e si sazia più
presto; e tanto più quanto egli è più vivo [così spesso il Casa] e sensitivo
ec., e quindi per necessità più amante di se stesso.) Ora la misura dei
desiderii, la loro copia vivezza ec. è sempre in proporzione della misura,
vivezza, energia, attività dell’amor proprio. Giacchè il desiderio non è d’altro
che del piacere, e l’amor della felicità non è altro che il desiderio del
piacere, e l’amor della felicità non è altro che l’amor proprio.
(24.
Giugno. 1822.). V. p.2528.
Quindi
osservate che tutto quanto si dice dell’amor proprio si deve anche intendere [2497]dell’amor
della felicità ch’è tutt’uno (v. p.2494.). E però la misura, la forza, l’estensione,
le vicende, gl’incrementi, gli scemamenti, tanto individuali che generali, dell’uno
di questi amori, son comuni all’altro nè più nè meno.
(24.
Giugno. 1822.)
L’antichissima
e propria significazione del verbo pareo, in luogo di cui vennero poi in
uso i suoi composti adpareo, compareo ec. s’è conservata in uso
familiarissimo e frequentissimo presso gl’italiani e gli spagnuoli (parere,
parecer, si pare ec.). Per qual mezzo, se non del volgare antico
latino? V. il Forc. e il Gloss. Così i francesi paroître, o paraître
ec.
Ho detto
altrove che il timore è la più egoistica passione dell’uomo sì naturale e sì
civile. Così anche degli altri animali. Ed è ben dritto, perocchè l’oggetto del
timore pone in pericolo (vero o creduto) l’esistenza o il ben essere di quel sè
che il vivente ama per propria essenza [2498]sopra ogni cosa. L’uomo il
più sensibile per abito e per natura, il più nobile, il più affettuoso, il più
virtuoso, occupato anche attualmente, poniamo caso, da un amore il più tenero e
vivo, se con tutto ciò è suscettibile del timor violento, trovandosi in un
grave pericolo (vero o immaginato) abbandona l’oggetto amato, preferisce (e
dentro se stesso e coll’opera) la propria salvezza a quella di quest’oggetto,
ed è anche capace in un ultimo pericolo di sacrificar questo oggetto alla
propria salute, dato il caso che questo sacrifizio (in qualunque modo s’intenda)
gli fosse, o gli paresse dovergli esser giovevole a scamparlo. Tutti i vincoli
che legano l’animale ad altri oggetti, o suoi simili o no, si rompono col
timore.
L’estrema
possibile semplicità o naturalezza dello stile, dello scrivere o del parlar
francese civile, è sempre di quel genere ch’essi medesimi (in altre occasioni)
chiamano maniéré. Anche il Salvini lo chiama ammanierato. V. la
definizione di maniéré ne’ Diz. francesi, dove lo diffiniscono per un’abitudine
viziosa che deforma tutto, e fa proprio al caso. V. p.e. il Tempio di Gnido,
e le Favole di La Fontaine.
(26.
Giugno 1822.)
[2499]Ho assegnato altrove come principio
d’infinite e variatissime qualità dell’animo umano (p.e. l’amor delle
sensazioni vivaci) l’amor della vita. Questo amore però è non solo necessaria
conseguenza, ma parte, ovvero operazione naturale dell’amor proprio, il quale
non può non essere amore della propria esistenza, se non quando quest’esistenza
è divenuta una pena. Ma ciò non in quanto esistenza, chè l’esistenza in quanto
esistenza, è per natura eternamente amata sopra ogni cosa dall’esistente.
Perocchè tanto è amar la propria esistenza in quanto esistenza, quanto è amar
se stesso. E sarebbe una contraddizione quasi impossibile a concepirsi, che l’esistenza
non fosse amata dall’esistente; e quindi che in certo modo l’esistenza fosse
odiata dall’esistenza, e combattuta dall’esistenza, e contraria all’esistenza,
o anche semplicemente non cara e non gradita a se stessa, nemmeno inquanto se
stessa.
(26.
Giugno. 1822.)
[2500]Alla p.2405. Un corollario si può
tirare molto ragionevolmente dal vedere che le scritture orientali mancano per
lo più delle vocali. Ed è che quelle lingue fossero le prime ad esser
coltivate, la scrittura orientale la prima ad essere inventata (appunto perchè
più imperfetta, e similmente si potrebbe dire della struttura ec. delle loro
lingue), le letterature orientali le prime a nascere, e in somma l’oriente il
primo ad esser civilizzato, e quindi probabilmente il primo ad esser popolato,
e ridotto alla società ec. Confermando con questa, le altre prove che già s’hanno
delle dette proposizioni, e dell’origine che il genere umano ha dell’oriente.
(26.
Giugno. 1822.)
Per qual
cagione il barbarismo reca inevitabilmente agli scritti tanta trivialità di
sapore, e ripugna sì dirittamente all’eleganza? Intendo per barbarismo l’uso di
parole o modi stranieri, che non sieno affatto alieni e discordi dall’indole
della propria lingua, e degli orecchi nazionali, e delle abitudini ec. Perocchè
[2501]se noi usassimo p.e. delle costruzioni tedesche, o delle parole
con terminazioni arabiche o indiane, o delle congiugazioni ebraiche o cose simili,
non ci sarebbe bisogno di cercare perchè questi barbarismi ripugnassero all’eleganza,
quando sarebbero in contraddizione e sconvenienza col resto della favella, e
cogli abiti nazionali. Ma intendo di quei barbarismi quali sono p.e. nell’italiano
i gallicismi (cioè parole o modi francesi italianizzati, e non già trasportati
p.e. colle stesse forme e terminazioni e pronunziazioni francesi, chè questo
pure sarebbe fuor del caso e della quistione). E domando perchè il barbarismo
così definito e inteso, distrugga affatto l’eleganza delle scritture.
Certo è
che non ripugna alla natura nè delle lingue, nè degli uomini, nè delle cose, e
non è contrario ai principii eterni ed essenziali dell’eleganza, del bello ec.
che gli uomini di una nazione esprimano un certo maggiore o minor numero d’idee [2502]con parole e modi appresi e ricevuti da un’altra nazione, che sia
seco loro in istretto e frequente commercio, com’è appunto la Francia rispetto
a noi (ed anche agli altri europei) per la letteratura, per le mode, per la
mercatura eziandio, e generalmente per l’influenza che ha la società e lo
spirito di quella nazione su di tutta la colta Europa. Torno a dire che questo
non ripugna naturalmente al bello, se quelle voci e modi non sono di forma
assolutamente discorde e ripugnante alle forme della propria lingua. E tale si
è appunto il caso nostro. Bisogna dunque cercare un’altra cagione fuori della
natura generale e immutabile, perchè questo barbarismo distrugga sensibilmente
l’eleganza, e non possa stare seco lei. Egli è pur certo, e tutti i maestri
dell’arte l’insegnano e raccomandano, e io l’ho spiegato e dimostrato altrove,
che non solo il pellegrino giova all’eleganza, ma questa non ne può [2503]fare
a meno, e non viene da altro se non da un parlare ritirato alquanto (più o
meno) all’uso ordinario, sia nelle parole, sia ne’ loro significati, sia ne’
loro accoppiamenti, nelle metafore, negli aggiunti, nelle frasi, nelle
costruzioni, nella forma intera del discorso ec. Or come dunque il barbarismo,
ch’è un parlar pellegrino, il barbarismo dico, quando anche non ripugni
dirittamente, anzi punto, all’indole generale e all’essenza della lingua, nè
all’orecchio e all’uso de’ nazionali, in luogo di riuscirci elegante, ci riesce
precisamente il contrario, e incompatibile coll’eleganza? Ecco com’io la
discorro.
I primi
scrittori e formatori di qualsivoglia lingua, e fondatori di qualsivoglia
letteratura, non solo non fuggirono il barbarismo, ma lo cercarono. V. Caro,
Apologia, p.23-40. cioè l’introduzione del Predella. Tolsero voci e modi e
forme e metafore e maniere di stile e costruzioni ec. (e questo in gran copia)
dalle lingue madri, dalle sorelle, e anche dalle affatto aliene, [2504]massimamente
se a queste, benchè aliene, apparteneva quella letteratura sulla quale essi si
modellavano, e dalla quale venivano derivando e imparavano a fabbricar la loro.
Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci tolte non solo dal latino,
ma dall’altre lingue o dialetti ch’avevano una tal qual dimestichezza o
commercio colla nostra nazione, e in particolare di provenzalismi (che vengono
ad essere appunto presso a poco i gallicismi, tanto abominevoli oggidì); de’
quali abbondano parimente gli altri trecentisti, e i ducentisti ec. Di
barbarismi abbonda Omero, com’è bene osservato dagli eruditi: di barbarismi
Erodoto: di barbarismi i primi scrittori francesi ec.
E non è
mica da credere nè che questi barbarismi de’ primi e classici scrittori,
fossero, a quei tempi, comuni nella loro nazione, ed essi scrittori si
lasciassero strascinar dall’uso corrente; ne che gli usassero e introducessero
per solo bisogno, o per arricchir [2505]la loro lingua di parole e modi economicamente utili. Gli usarono, come si può facilmente scoprire, per espresso fine di
essere eleganti col mezzo di un parlar pellegrino, e ritirato dal volgare. E
sebben furono costretti, volendo essere intesi, a usar gran parte delle voci e
modi correnti, e formarne il corpo della loro scrittura, pur molto volentieri e
con predilezione s’appigliarono quando poterono alle voci e modi forestieri,
per parlare alla peregrina, e per dare al loro modo di dire un non so che di
raro, ch’è insomma l’eleganza. E p.e. di Dante, si vede chiaramente ch’egli si
studiò di parlare a’ suoi compatrioti co’ modi e vocaboli provenzali, a cagione
che la nazion provenzale era allora la più colta, ed aveva una specie di
letteratura, abbastanza nota in Italia, e che rendeva la lingua provenzale così
domestica agl’italiani colti, che le sue parole o frasi, italianizzandole, non
erano enigmi [2506]per loro, e così poco volgare che le dette voci e
frasi non erano ordinariamente nella loro bocca (come non lo sono ora le latine
che p.e. i poeti derivano di nuovo nell’italiano, e che tutti intendono), nè in
quella del popolo: il quale però eziandio era sufficientemente disposto ad
intenderle (senza perdere il piacere del pellegrino) a causa delle canzoni
provenzali, amorose ec. ch’andavano molto in giro, e si cantavano ec. Or dunque
da queste canzoni, e dalla letteratura e dalla lingua provenzale tirò Dante
molte voci e modi per essere elegante: e ci riuscì allora; e con tutti questi
che oggi si chiamerebbero barbarismi, sì egli, come Omero, e tali altri
scrittori primitivi, s’hanno da per tutto per classici, e taluni per eleganti;
o se s’hanno per ineleganti, viene piuttosto dall’arcaismo che dal barbarismo.
In somma
il barbarismo, quando è veramente un parlar pellegrino, e che non ripugna ec.
come sopra, e che s’intende, è [2507]sempre (da qualunque lingua sia
tolto, rispetto alla lingua propria) non solo compatibile coll’eleganza, ma
vera fonte di eleganza.
Cresciuta,
formata, stabilita la lingua, e la letteratura di una nazione, interviene le
più volte, che introducendosi il commercio fra questa ed altre lingue e
letterature, parte l’uso, e l’assuefazione di udire voci e modi forestieri,
parte la necessità di riceverne insieme cogli oggetti coi libri coi gusti cogli
usi colle idee che da’ forestieri si ricevono, parte l’amor delle cose
straniere e la sazietà delle proprie, ch’è naturale a tutti gli uomini sempre inclinati
alla novità (v. Omero Odiss. 1. v.351-2.), parte fors’anche altre cagioni
riempiono la favella nazionale di voci e modi forestieri in guisa che appoco
appoco, dimenticate o disusate le voci e maniere proprie, divien più facile il
parlare e lo scrivere con quelle de’ forestieri, che s’hanno più alla mano, e s’usano
più giornalmente, e più familiarmente. Ed ecco un’altra volta introdotto il
barbarismo nella lingua [2508]e letteratura nazionale, ma per tutt’altra
cagione e fine, e con tutt’altro effetto che l’eleganza e l’arricchimento loro.
Quanto all’arricchimento, questo è il punto in cui la lingua nazionale comincia
a scadere e scemare sensibilmente, e impoverirsi, e indebolirsi fino al segno
che dimenticate e antiquate la maggiore o certo grandissima parte delle sue
voci e modi, e anche delle sue facoltà, ella non ha più forza nè capacità di
supplire ai bisogni del linguaggio, e di fornire un discorso del suo, senza
ricorrere al forestiero. (E la nostra lingua è già vicina a questo segno, non
solo per le ricchezze proprie ch’avrebbe dovuto venire acquistando, e non l’ha
fatto, ma anche per quelle infinite ch’aveva già, ed ha perdute, e molte
irrecuperabilmente). E così dico della letteratura.
Quanto
poi all’eleganza, quelle voci e modi, non essendo più pellegrini, non sono più
eleganti. Anzi non c’è cosa più volgare e ordinaria di quelle voci e
modi forestieri. Come accade appunto in Italia oggidì, che non si può
nè parlare nè scrivere in un italiano più volgare e corrente, che parlando e
scrivendo in un italiano alla francese. [2509]Il che è ben naturale
e conseguente, secondo le cagioni che ho assegnate, le quali introducono questo secondo barbarismo in una lingua. Perocchè esse l’introducono ed
influiscono direttamente, non negli scritti de’ grandi letterati e degli uomini
di vero e raffinato buon gusto (come ho detto di quel primo barbarismo)
ma nella favella quotidiana, e da questa passa il barbarismo nei libri degli
scrittorelli che non istudiano, non sanno, non conoscono, e neanche cercano, nè
si vogliono affaticare ad indagare altra lingua da quella che son soliti di
parlare, e sentire a parlar giornalmente, e non si saprebbero esprimere in
altro modo, nè possiedono altre voci e forme di dire. Di più seguono ed
approvano (secondo il poco e stolto loro giudizio) l’uso corrente, la moda ec.
ed accattano l’applauso e la lode del volgo, e si compiacciono di quella misera
novità, e vogliono passar per autori alla moda: così che oltre all’ignoranza,
li porta al [2510]barbarismo anche la volontà, ed il cattivo loro
giudizio; e l’esempio gli strascina ec. Di più formandosi a scrivere sui soli o
quasi soli libri stranieri divulgati nella loro nazione, non conoscono altre
voci, frasi, e maniere di stile, che quelle di que’ libri, o non si vogliono
impazzire a scambiarle coll’equivalenti nazionali, che non hanno punto alla
mano. E così imbrattano sempre più la lingua e letteratura nazionale di cose
forestiere, anche oltre all’uso della favella ordinaria de’ loro compatrioti.
Introdotto
così, e fondato e propagato in una lingua il barbarismo per la seconda volta,
la stessa sua propagazione lo rende inelegante al contrario della prima volta.
Perocchè allora la lingua volgare non è quella che si chiama così e ch’è
veramente nazionale, ma è quella barbara e maccheronica che si parla e scrive
ordinariamente, e però chi scrive alla forestiera, scrive volgarissimo, e
quindi inelegantissimo. [2511]Dov’è da notare che allora il barbarismo
non è contrario all’eleganza come forestiero: chè anzi il forestiero bene
inteso da’ nazionali, e non affettato, è sempre elegante. Ma per l’opposto
è inelegante come volgare.
E
laddove la prima volta, quand’esso non era volgare, riusciva elegante, e più
elegante di quel ch’era nazionale, questa seconda volta il puro nazionale
riesce molto più elegante del forestiero, non già come puro nè come nazionale
(chè queste qualità non furono mai cagione di eleganza), ma come non volgare,
come ritirato dall’uso corrente e domestico, come proprio oramai de’ soli
scrittori, e questi anche pochi.
Ecco che
la purità della favella è divenuta quasi sinonimo dell’eleganza della medesima:
e questo con verità e con ragione, ma non per altro, se non perch’essa purità è
divenuta pellegrina.
Così
quelle voci e modi che una volta [2512]perchè familiari alla nazione non
erano eleganti, anzi fuggite dagli scrittori di stil nobile ed elevato, o che
tali pretendevano di essere; divengono già elegantissime e graziosissime perchè
da una parte si riconoscono ancora facilmente per nazionali, e quindi sono
intese subito da tutti, come per una certa memoria fresca, e non riescono
affettate, dall’altra parte non sono più correnti nell’uso quotidiano. E così
anche le parole e maniere una volta trivialissime e plebee nella nazione,
aspirano all’onor di eleganti, e lo conseguiscono, come si potrebbe mostrare
per mille esempi di voci e frasi individue.
In somma
oggi, p.e. fra noi, chi scrive con purità, scrive elegante, perchè chi scrive
italiano in Italia scrive pellegrino, e chi scrive forestiero in Italia scrive
volgare.
Dal che
si deve abbatter l’errore di quelli che pretendono che v’abbia principii fissi
ed eterni dell’eleganza. V. la pag.2521. sulla fine. Non v’ha principio fisso
dell’eleganza, se non questo (o [2513]altro simile) che non si dà
eleganza senza pellegrino. Come non v’ha principio eterno del bello se non che
il bello è convenienza. Ma come è mutabile l’idea della convenienza, così è
variabile il pellegrino, e quindi è variabile l’eleganza reale, effettiva e
concreta, benchè l’eleganza astratta sia invariabile. Nè purità nè altra tal
qualità delle parole o frasi, sono principii certi ed eterni dell’eleganza d’esse
voci o frasi individue. Ineleganti una volta, divengono poi eleganti, e poi di
nuovo ineleganti, secondo ch’esse sono o non sono pellegrine, giusta quelle
tali condizioni del pellegrino, stabilite di sopra.
Queste
verità sono confermate dalla storia di qualunque letteratura e lingua. La
purità dell’Atticismo non divenne un pregio nell’idea de’ greci, nè fu sinonimo
d’eleganza presso loro, se non dopo che i greci ebbero a udire ed usare
familiarmente voci e frasi forestiere. Omero, Erodoto, Senofonte medesimo
(specchio d’Atticismo) erano [2514]stati elegantissimi con voci e frasi
forestiere, poco usate da’ greci de’ loro tempi; anzi per mezzo appunto d’esse
voci e frasi, fra l’altre cose. Non si pregia la purità, nè anche si nomina, se
non dopo la corruzione, cioè quand’essa è pellegrina. E prima della corruzione
si pregia il forestiero perchè pellegrino. Ennio, Plauto, Terenzio, Lucrezio
ec. specchi della eleganza latina, son pieni di grecismi, cioè di barbarismi.
Al tempo di Cicerone, di Orazio, e molto più di Seneca, di Frontone ec. che l’Italia
parlava già mezzo greco, erano sorti i zelanti della purità, e il grecismo
lodato in Plauto e in Cecilio (Oraz. ad Pison.) era impugnato ne’ moderni, e
proibito affatto da’ pedanti, e usato con moderazione dai savi, e Cicerone se
ne scusa spesso, e loda ed ama e deplora la purità dell’antico sermone, e la
favella di sua nonna, ch’al tempo di sua nonna tutti i buoni scrittori
posponevano al grecismo, quanto potevano [2515]farlo senza riuscire
oscuri presso un popolo allora ignorante del forestiero, e del greco, e delle
voci e frasi che non fossero nazionali. Dal che, e non da altro, e forse dalla
stessa poca loro perizia del greco, nacque che gli antichi scrittori latini,
benchè abbondanti di grecismi e barbarismi, pur si riputassero e fossero
modelli del puro sermone Romano, rispetto agli scrittori più moderni. E lo
stesso dico degli antichi italiani.
E quella
ricchissima, fecondissima, potentissima, regolatissima, e al tempo stesso
variatissima, poetichissima e naturalissima lingua del cinquecento, ch’a noi
(ne’ suoi buoni scrittori) riesce così elegante, forse ch’allora fu tenuta per
tale? Signor no, ma per corrotta. E la buona lingua si stimava solo quella del
trecento, e se ne deplorava la mutazione, chiamandola corruzione e scadimento
totale della lingua, (come noi facciamo rispetto al 500), e gli scrittori tanto
più s’avevano eleganti, quanto meno scrivevano nella lingua loro per iscrivere
in quella di quell’altro secolo. Laddove a noi, a’ quali l’una e l’altra è
divenuta pellegrina, tanto più piacciono i cinquecentisti quanto più seguono l’uso [2516]del loro secolo, e meno imitano il trecento. Ed è ben ragionevole
perchè allora solo possono esser naturali e di vena, come è il Caro che non fu
mai imitatore. (È notabile che di parecchi cinquecentisti, le lettere dov’essi
ponevano meno studio, e che stimavano essi medesimi di lingua impurissima,
mentr’era quella del loro secolo, sono più grate a leggersi, e di migliore
stile che l’altre opere, dove si volevano accostare alla lingua del trecento,
mentre nelle lettere usavano la lingua loro, e riescono per noi elegantissimi e
naturalissimi.). V. p.2525. Ma anche nel cinquecento non si stimava veramente
elegante se non il pellegrino, e lo trovavano e cercavano nella lingua del
trecento, che sola chiamavano pura, quando per noi è purissima quella del
cinquecento. V. Salviati, Avvertim. della lingua, citati nelle op. del Casa,
Venez. 1752. t.3. p.323. fine - 324. Nel trecento poi nemmen si parlava di
purità, nè si poneva tra i pregi della lingua o dello scrivere; e la lingua del
loro secolo non si stimava elegante (se non forse alcune smancerie fiorentine,
di cui parla il Passavanti, e queste credo piuttosto che s’amassero nel resto
di Toscana o d’Italia, che in Firenze, come accade veramente anche oggi): e
quelli scrittori che più si stimavano eleganti, e che tali si credevano o
pretendevano essi medesimi, erano non quelli che oggi più s’ammirano per la
naturalezza e la semplicità, e che [2517]in somma usavano più puramente
la lingua nazionale o patria del tempo loro, ma quelli che oggi meno s’apprezzano,
cioè che la fornivano di parole e modi forestieri, e che si studiavano di
tirarla alle forme d’altre lingue, e d’altri stili, come fece il Boccaccio
rispetto al latino, e come anche Dante, la cui lingua, s’è pura per noi, che
misuriamo la purità coll’autorità, niuno certamente avrebbe chiamato pura a
quei tempi, s’avessero pensato allora alla purità, e gli stessi cinquecentisti
non erano molto inchinati a stimarlo tale, nè ad accordargli un’assoluta
autorità e voto decisivo in fatto di purità di lingua, restringendosi piuttosto
al Petrarca e al Boccaccio. V. Caro Apolog. p.28. fine ec. Lett. 172. t.2. e se
vuoi, anche il Galateo del Casa circa la stima ch’allora si faceva di tanto
poeta.
Per le
quali considerazioni e confronti, sebbene la lingua italiana di questo secolo
sia bruttissima e pessima per ragioni e qualità indipendenti dalla purità e dal
barbarismo, cioè perchè povera, monotona, impotente, fredda, inefficace,
smorta, inespressiva, impoetica, inarmonica ec. ec. nondimeno ardisco dire che
se gli scrittori barbari della moderna Italia, arriveranno ai posteri,
quando la lingua italiana sarà già in qualunque modo mutata dalla presente, e
se [2518]la prevenzione (che influisce moltissimo sopra il senso dell’eleganza
e del bello in ogni cosa) e il giudizio del secol nostro non avrà troppa forza
ne’ futuri, come non l’ha in noi il giudizio de’ cinquecentisti, questa nostra
barbara lingua, si stimerà elegante, e piacerà, perchè divenuta già pellegrina,
e forse il Cesarotti ec. passerà per modello d’eleganza di lingua.
Finalmente
non è ella cosa conosciutissima che alla poesia non solo giova, ma è necessario
il pellegrino delle parole delle frasi delle forme (niente meno che delle
idee), per fare il suo stile elegante e distinto dalla prosa? Non lo dà per
precetto Aristotele? (Caro, Apolog. p.25.). Il poetico della lingua non è quasi
il medesimo che il pellegrino? O certo il pellegrino non è una qualità poetica
nella lingua, e non serve di sua natura a poetichizzare il linguaggio e lo
stile? Or ditemi se nelle poesie italiane d’oggidì si può trovar cosa più [2519]prosaica
delle voci, frasi ec. forestiere? se più triviale, più ordinaria, in somma più
decisamente impoetica e più distruttiva dell’eleganza del linguaggio, e in
maggior contraddizione colla natura dello stil poetico? Tanto che, riuscendo
sempre le dette voci e maniere, inelegantissime nella prosa, che pur è
obbligata a minor eleganza, nella poesia riescono stomachevoli, e la cambiano
affatto di poesia in cattiva prosa, onde osserva il Perticari (De’ 300isti),
sebbene non con tutta verità, che il barbarismo insignorito delle prose
italiane, pur non mise piede nelle poesie, come non ci potesse esser poesia con
barbarismi. E questo perchè? essendo il pellegrino così proprio della poesia,
ch’ella non ne può far senza? Perchè, torno a dire, se non perchè tali voci e
frasi ec. forestiere, sono appunto le più volgari, giornaliere, correnti,
usuali voci e maniere della nostra favella presente? e quindi distruttive del
pellegrino? e se nuove nella scrittura o nella poesia, non [2520]nuove,
anzi vecchie nell’uso volgare del discorso, e quindi distruttive della novità
ch’è l’uno de’ principali pregi della lingua poetica? Laonde oggi sono eleganti
le poesie scritte nella pura lingua italiana, e spesso anche in quella che una
volta fu poco meno che trivialissima. Non per altro se non perchè quanto più
sono italiane, tanto più dette poesie ci riescono pellegrine.
Concludo
che il barbarismo è distruttivo dell’eleganza, sì della prosa, e sì
massimamente della poesia (alla quale più si richiede il pellegrino), non come
pellegrino, nè come semplicemente forestiero, e contrario alla purità (ch’è un
nome astratto, e sempre variabile nella sua sostanza); ma per lo contrario,
come distruttivo del pellegrino, e del nuovo, come volgare, come
triviale, come quello che forma la parte più moderna, e quindi più corrente e
ordinaria della favella. E che la purità è necessaria e giovevole all’eleganza, [2521]non in quanto purità, nè in quanto nazionale ec. (qualità
alienissime dall’eleganza e dalla grazia), ma in quanto pellegrina e rara, e
distinta dall’uso comune, e ritirata dal volgo, e diversa dalla favella
giornaliera presente. (il che viene in somma a dire ch’ella non è più
veramente purità, essendo bensì stata, ma non essendo più nazionale. E pure
allora solamente viene in pregio la purità, quando ella non è più tale, cioè
quando a volerla usare, non si usa la vera lingua nazionale corrente. Così lingua
pura, è un abuso di parole, in vece di dire, lingua antica della nazione
e degli scrittori nazionali.) V. p.2529.
Tutte le
sopraddette osservazioni, e particolarmente quelle della pagina 2512. fine -
13. si debbono applicare alla teoria della grazia derivante da quello ch’è fuor
dell’uso. Le cagioni dell’eleganza delle parole o modi sono eterne, ed
eternamente le stesse. Ma niuna parola o frase ec. di niuna lingua, è
perpetuamente elegante, [2522]per elegantissima che sia o che sia stata
una volta, nè viceversa triviale ec.: neanche durando la stessa indole, genio,
spirito, carattere, forma ec. di quella tal lingua. E non solo niuna parola o
modo, ma niun genere o classe di parole o modi.
Spesso
una parola è inelegante, o (se si tratta di verso) impoetica in un senso, ed
elegante e poetica in un altro, solamente perchè in quello è volgare, e in
questo no, o poco frequentemente usata. Come chi dicesse varii in poesia
per diversi, parecchi, non peccherebbe contro la buona lingua,
avendovene molti esempi, e fra gli altri del Tasso (Discorso sopra vari
accidenti della sua vita), ma sarebbe poco elegante, per esser questo
significato della detta parola molto volgare e familiare. Ma chi dicesse, come
il Petrarca, VARIE di lingue e d’armi e de le gonne, o come Virgilio Mille
trahit VARIOS adverso sole colores, non s’allontanerebbe punto dall’eleganza,
per la ragione [2523]contraria. E notate ch’io non parlo solamente de’
sensi metaforici, i quali possono render poetica una voce usualissima, ed anche
impoetichissima, ma parlo eziandio de’ significati propri, come dimostra l’addotto
esempio, o de’ poco meno che propri. E quel che dico delle voci, dico delle
frasi ec.
Ovidio
descrive, Virgilio dipinge, Dante (e così proporzionatamente nella prosa il
nostro Bartoli) a parlar con proprietà, non solo dipinge da maestro in due
colpi, e vi fa una figura con un tratto di pennello; non solo dipinge senza
descrivere, (come fa anche Virgilio ed Omero), ma intaglia e scolpisce dinanzi
agli occhi del lettore le proprie idee, concetti, immagini, sentimenti.
(29.
Giugno, 1822. dì di S. Pietro.)
Il
giovane istruito da’ libri o dagli uomini e dai discorsi prima della propria
esperienza, non solo si lusinga sempre e inevitabilmente [2524]che il
mondo e la vita per esso lui debbano esser composte d’eccezioni di regola, cioè
la vita di felicità e di piaceri, il mondo di virtù, di sentimenti, d’entusiasmo;
ma più veramente egli si persuade, se non altro, implicitamente e senza
confessarlo pure a se stesso, che quel che gli è detto e predicato, cioè l’infelicità,
le disgrazie della vita, della virtù, della sensibilità, i vizi, la scelleraggine,
la freddezza, l’egoismo degli uomini, la loro noncuranza degli altri, l’odio e
invidia de’ pregi e virtù altrui, disprezzo delle passioni grandi, e de’
sentimenti vivi, nobili, teneri ec. sieno tutte eccezioni, e casi, e la regola
sia tutto l’opposto, cioè quell’idea ch’egli si forma della vita e degli uomini
naturalmente, e indipendentemente dall’istruzione, quella che forma il suo
proprio carattere, ed è l’oggetto delle sue inclinazioni e desiderii, e
speranze, l’opera e il pascolo della sua immaginazione.
(29.
Giugno, dì di S. Pietro. 1822.)
[2525]Alla p.2516. marg. fine - e sempre
scrisse (il Caro) nella propria lingua del suo secolo, non del trecento, e
della sua nazione, non di sola Firenze. Or vedasi nell’esempio del Caro non
Fiorentino, come era bella e graziosa questa lingua nazionale del
cinquecento, ch’allora si disprezzava, e diceva il Salviati che bisognava
scordarsene e lavarsene gli orecchi, nè più nè meno di quello che ci dicano
oggi della nostra moderna. Certo è che nessun Fiorentino nè del trecento nè del
500 nè d’altro secolo scrisse mai così leggiadramente e perfettamente come
scrisse il Caro Marchegiano e di piccola terra, tanto le cose studiate, quanto
le non istudiate; vero apice della prosa italiana, e che anche oggidì, letto o
bene imitato, è fresco e lontanissimo dall’affettazione la più menoma, come s’oggi
appunto scrivesse. E notate che il Caro, tutto quello che scrisse, ebbe poco
tempo di studiarlo, lasciando star le lettere, familiari, ch’egli scriveva anzi
di malissima voglia, come dice [2526]spessissimo, e dice ancora: E
delle mie (lettere) private io n’ho fatto molto poche che mi sia messo per
farle (cioè con istudio), e di pochissime ho tenuta copia (lett.
180. vol.2. al Varchi.) Dal che si vede che quello stile e quella lingua gli
erano naturali, e sue proprie, non altrui, cioè proprie del suo secolo e della
sua nazione, benchè da lui modificate secondo il suo gusto, e benchè si
professi molto obbligato nella lingua a Firenze, scrivendo al Fiorentino
Salviati. (lett. ult. cioè 265. fine, vol.2.). Vedi ancora quel ch’egli dice
del poco studio e impegno con cui tradusse l’Eneide, la Rettor. d’Aristot. le
Oraz. del Nazianz. Tutte opere, che siccome le lettere familiari (e forse
queste anche più della Rettor. e delle Oraz.) ci riescono pur contuttociò di
squisita e quasi inimitabile eleganza.
(29.
Giugno, dì di S. Pietro. 1822.)
Toçw d¢ (xÅrouw) m¯ ¦xontaw ¤pÛdosin, (agros qui incrementum nullum
haberent, cioè così ben coltivati già quando si comprano, che non si [2527]possano
far migliori) oçd¢ ²donŒw õmoÛaw ¤nñmize par¡xein:ŽllŽp•n xt°ma kaÜ Jr¡mma
tò b¡ltion
Þòn
toèto kaÜ eéfraÛnein m‹lista Õeto. Dice queste cose Iscomaco di suo padre, il quale non voleva che si
comprassero fondi ben coltivati, ma trascurati dal possessore, e le dice a
Socrate presso Senofonte Del governo della casa, cap.20. §.23. Così tutto il
piacere umano consiste nella speranza e nell’aspettativa del meglio, e
posseduto non è piacere, e quello stato che non si può migliorare, benchè
ottimo e desideratissimo per se, è sempre infelicissimo, come fu presso a poco
quello d’Augusto divenuto padrone di tutto il mondo, e malcontento com’egli s’espresse.
(29.
Giugno 1822.)
Ho
discorso altrove di quello che si suol dire, ch’ogni proposizione ha due
aspetti, e dedottone che ogni verità è relativa. Notate che ogni proposizione,
ogni teorema, ogni oggetto di speculazione, ogni cosa ha non solo [2528]due
ma infinite facce, sotto ciascuna delle quali si può considerare, contemplare,
dimostrare e credere con ragione e verità. E in tanto si dice che n’abbia due,
in quanto d’ogni proposizione si può dir pro e contra, dimostrarla vera e
falsa, e sostenere così la tal proposizione, come la sua contraria. E ogni
proposizione e verità sussiste e non sussiste in quanto al nostro intelletto, e
anche per se. E d’ogni cosa si può affermar questo o quest’altro, e
parimente negarlo. Il che più vivamente e dirittamente dimostra come non
sussiste verità assoluta.
(29.
Giugno, 1822. dì di S. Pietro e mio natalizio.)
Alla
p.2496. fine. Finchè si fa conto de’ piaceri, e de’ propri vantaggi, e finchè l’uso,
il frutto, il risultato della propria vita si stima per qualche cosa, e se n’è
gelosi, non si prova mai piacere alcuno. Bisogna disprezzare i piaceri, contar
per nulla, per cosa di niun momento, e indegna di qualunque riguardo e
custodia, i propri vantaggi, quelli della gioventù, e se stesso; considerar [2529]
la propria vita gioventù ec. come già perduta, o disperata, o inutile, come
un capitale da cui non si può più tirare alcun frutto notabile, come già
condannata o alla sofferenza o alla nullità; e metter tutte queste cose a
rischio per bagattelle, e con poca considerazione, e senza mai lasciarsi
cogliere dall’irresoluzione neanche nei negozi più importanti, nemmeno in
quelli che decidono di tutta la vita, o di gran parte di essa. In questo solo
modo si può goder qualche cosa. Bisogna vivere eik», témere,
à l’ hasard, alla ventura.
Alla
p.2521. La conchiusione e la somma del discorso si è che in qualunque tempo e
in qualunque letteratura è piaciuta una lingua diversa dalla presente nazionale
parlata, per bonissima, utilissima e bellissima che questa fosse: e non s’è mai
giudicata elegante la scrittura composta delle voci e de’ modi ordinari in quel
tempo e correnti [2530]effettivamente nella nazione, per
purissimi che questi fossero. E questa (bench’altre ancora ve n’abbia) è l’una
delle principali cagioni per cui non piace, e si disapprova e si biasima e
riesce inelegante nelle scritture la presente lingua della nostra nazione, e si
richiama la nostra lingua antica. Con ragione, benchè non sia molto ragionevole
il richiamarla come pura, chè nè essa era pura, nè la purità è un pregio
necessario ed appartenente all’essenza dello scriver bene, e molte volte non è
possibile, e in fine è piuttosto un nome che una cosa, non potendosi mai
definir questa purità, nè trovar precisamente quel che sia la purità di una tal
lingua individua, anzi non esistendo essa mai, perchè tutte le lingue sono
composte di voci, modi ec. presi più o meno ab antico da molte e varie altre
lingue. E non potendosi neppur circoscrivere la così detta [2531]purità
dentro i termini dell’uso nazionale, perchè se ciò fosse, tutte le nazioni in
tutti i tempi parlerebbero puramente, e tutti gli scrittori seguendo la lingua
del tempo loro, scriverebbero puramente, massime conformandosi alla parlata, e
non esisterebbe il contrario della purità, cioè l’impurità, perchè nessuna
lingua in nessun tempo sarebbe mai impura, benchè tutta composta da capo a
piedi di barbarismi. Sicchè resta che per lingua pura s’intenda come suo
preciso sinonimo la lingua antica di una nazione, cioè quella lingua
composta per la più parte di voci e modi venuti di fuori, che dagli antichi fu
parlata e scritta. E in particolare quella che fu contemporanea della miglior
letteratura e coltura nazionale, e in somma quella che fu il risultato, non già
dell’abbozzo (ch’ebbe la lingua italiana da’ 300isti) ma del perfezionamento
dato alla lingua [2532]nazionale, e massime alla scritta, dagli
scrittori e letterati nazionali nel tempo in cui maggiormente e precisamente
fiorì la letteratura e coltura nazionale, che fu per noi il 500.
Richiamare
questa tal lingua, non pura, propriamente parlando, ma antica, e non come pura,
ma come antica, richiamarla, dico, nella letteratura, è, come ho detto,
ragionevole, ed autorizzato dall’esempio dell’altre nazioni antiche e moderne.
Ed è ragionevole sì per li suoi pregi intrinseci e indipendenti dalle
circostanze, e per la miseria e bruttezza propria assoluta e indipendente della
nostra lingua moderna; sì per quello che ho dedotto dal precedente discorso,
cioè che una lingua nazionale usitata e parlata presentemente non può mai
riuscire elegante nelle scritture, quando anche, in se, fosse ottima e bellissima.
Potranno
oppore a quest’ultima proposizione, e al mio precedente discorso, che gli [2533]scrittori
classici del 500 ebbero gran fama ed onore, e piacquero anche al tempo loro,
quando anche scrivessero appunto nella lingua nazionale usitata e parlata a
quel tempo. Rispondo.
1. La maggior fama degli scrittori del 500 fu a
que’ tempi, come verseggiatori, e specialmente lirici, e questi ognun sa ch’erano
servili imitatori del Petrarca, e quindi del 300, e si veda nell’Apologia del
Caro, la misera presunzione ch’avevano di scrivere come il Petrarca, e che non
s’avessero a usar parole o modi non usati da lui, come anche nelle prose
volevano restringer la lingua a quella sola del Boccaccio, e siamo pur lì.
Certo è, nè per chiunque è pratico dello spirito che governava la repubblica
nostra letteraria nel 500, è bisogno di molte parole a dimostrargli, che l’apice
della letteratura, e quello a cui nondimeno aspiravano [2534]tanto gl’infimi
quanto i sommi, era la lirica Petrarchesca, cioè 300istica, e non 500istica. E
gli scrittori più grandi in ogni altro genere o prosaico o poetico, divenivano
famosi principalmente pe’ loro sonetti e canzoni petrarchesche che si
divulgavano come un lampo per l’Italia, si trascrivevano subito, si
domandavano, erano il trattenimento delle Dame, e queste ne chiedevano ai
letterati, e i letterati se ne chiedevano scambievolmente, e ne ricevevano e
restituivano con proposte e risposte ec. E senza questi versi difficilmente s’arrivava
alla riputazion di letterato. Osservate, per non allontanarmi dall’esempio più
volte addotto, il Caro, le cui rime sono la sola cosa che di lui non si legga
più. Aveva il Caro grandissima fama, ma dalle sue lettere vedrete che questa
riposava essenzialmente e soprattutto nell’opinion ch’egli avea di poeta (che
nol fu mai), e [2535]tutto il restante suo merito letterario, s’aveva in
lui, come in tutti gli altri, per mero accessorio. E fu stimato gran poeta, non
già per l’Eneide, ch’oggi s’ammira, e si ristampa, ch’è scritta in istile e
lingua propria del suo tempo, benchè abbellita al suo modo, e arricchita di
latinismi.
Questa fu opera postuma e non levò molto grido nel 500. Il Caro fu creduto un
sommo letterato perchè sapeva rimare alla Petrarchesca, e giudicar di tali
pretese poesie. E la sua famosa Canzone fu strabocchevolmente ammirata (ed oggi
non s’arriva a poterla legger tutta) perchè si disse che il Petrarca non l’avrebbe
scritta altrimenti. (Caro, Apolog. p.18.). E chi non sa l’inferno che cagionò
in Italia, e come nella disputa di quell’impiccio petrarchesco ci prese parte
tutta la nazion letterata, considerandola come affar di tutta la letteratura?
Fatto sta che le maravigliose prose del Caro, benchè stimate, [2536]non
furono già ammirate nel 500 (quanto alla lingua). Ed è certo che la lingua del
Caro, come l’immaginazione e l’ingegno di Dante, son venute principalmente in
onore, e riposte nel sommo luogo che meritano, in questo e sulla fine del
passato secolo. Il che, di Dante, si vede anche fra gli stranieri. E quanto a
lui, ciò si deve al perfezionamento de’ lumi, e del gusto, e della filosofia, e
della teoria dell’arti, e del sentimento del vero bello. Quanto al Caro, ciò
viene in gran parte da circostanze materiali.
2. Le prose italiane ch’ebbero fama nel 500, l’ebbero
per l’una di queste cagioni. 1° Per essere scritte alla Boccaccevole (e quindi
fuor dell’uso di quel secolo), come sono l’Arcadia del Sannazzaro nelle prose,
le prose del Bembo, e tutte quelle del Casa, tolte le lettere. E notate che
questi prosatori e i loro simili furono appunto i [2537]più stimati in
quel secolo (al contrario del nostro), e dati per modello. Il che dimostra ad
evidenza che il gusto del cinquecento nella lingua era quello ch’io dico, che s’apprezzava
come elegante una lingua diversa dalla loro, e che sempre si disprezza la
lingua attualmente corrente nella nazione, per bellissima ed ottima ch’ella
sia.
2°
Per lo stile, per la imitazione de’ classici latini o greci indipendentemente
dalla lingua. Questo studio era comune ai buoni prosatori (come anche poeti)
del 500. Ed avendosi allora gran gusto e inclinazione per il classico, si
stimavano e ricercavano le prose scritte nello stile e ad imitazione e colle
forme degli antichi classici, benchè la lingua non piacesse gran fatto. E
questa è una delle ragioni per cui si faceva conto anche delle lettere più
familiari, e d’ogni bagattella, e schediasma, anche degli scrittori non
celebri, con tutto che fossero scritte nella lingua del [2538]secolo, e
si raccoglievano con diligenza che ora sarebbe ridicola, e si stampavano ec.
benchè di niunissima importanza nelle cose. Perocchè quasi tutti, o certo
moltissimi scrivevano allora in buono stile, essendo divulgatissimo lo
studio de’ veri classici. Di più questo medesimo, benchè spettasse allo stile,
pur essendo così strettamente uniti lo stile e la lingua, dava alle prose (come
anche alle poesie) del 500. un sapor d’eleganza indipendente dalla lingua in
se.
3°
Perchè molti (e questo fu vero e principal pregio del cinquecento, ed a cui fu
dovuto il perfezionamento della nostra lingua) si studiavano anche di accostare
e di modellare non solo lo stile, ma anche la lingua italiana, sulla latina e
greca, in quanto lo potea comportare la sua natura. Questo fu comune alla
massima parte de’ veri buoni scrittori del cinquecento, massime prosatori. E
questo li rendeva eleganti anche presso i contemporanei. [2539]Ma questa
eleganza veniva non da altro che dal pellegrino, (cioè dal latino e dal greco)
benchè quegli scrittori volessero piuttosto perfezionare, accostare al latino o
al greco, render classica la lingua del loro secolo, che quella del 300,
parlassero, come facevano, e bene, più da 500isti, che da 300isti, più da
moderni che da antichi italiani; usassero la lingua viva e non la morta, le
parole moderne più che le antiche, e insomma innestassero il latino e il greco
nella lingua del 500, e non del 300, e però l’eleganza loro non venisse dall’uso
dell’antico italiano, nè dalla così detta purità, quantunque oggi per noi sieno
purissimi. Ma tali non erano allora per li pedanti, i quali chiamavano corrotto
e barbaro quel che non era del 300, proibivano il latinismo anche più di quello
che facciano i pedanti oggidì, poichè s’ardivano di chiamar barbara ogni voce
latina che non fosse stata usata [2540]dagli antichi, anzi dal Boccaccio
o dal Petrarca, per convenientissima che fosse all’italiano, e anche nello
stile, e nella composizione della dicitura, volevano piuttosto o quella del
Boccaccio o del Petrarca o quella degl’ignoranti non iscrittori ma scrivani del
300, che quella de’ classici latini e greci. (V. le opposizioni del Castelvetro
alla canzone del Caro, e l’Apol. del Caro).
4°
Si stimavano le prose (o le poesie) del 500, per le cose, per l’immaginazione,
invenzione, concetti, sentenze, scoperte o dottrine scientifiche, ec.
erudizione ec. ec. benchè la lingua non piacesse, essendo pur la pura e vera
lingua corrente di quel secolo. Onde per noi tali scrittori riescono purissimi
ed elegantissimi perchè antichi. Ma corrotti si stimavano allora, e negletti, e
di niun conto in somma nella lingua. E la pura lingua del 500, quella che si
dimostra pienamente nelle lettere familiari di [2541]quel secolo,
scritte a penna corrente, e ch’è ricchissima potentissima ec. e per noi
purissima ed elegantissima e spesso tanto più pura e graziosa quanto è più
propria del secolo, e più naturale, si chiamava allora decisamente corrotta, e
si deplorava, anche da’ veri letterati la degenerazione della lingua italiana,
non per altro se non perchè non era più quella propriamente del 300, benchè
dopo la corruzione del 400, fosse risorta più bella e potente di prima, il che
affermo a chiunque ne conosca le intime qualità, e le vaste e riposte ricchezze
e facoltà della propria lingua del 500. Lascio star che questa è regolata, e
quella del 300 va dove e come vuole, e non se ne cava il costrutto, e per lo
più bisogna indovinarne il senso. Del resto questi tali scrittori di lingua
stimata allora cattiva e impura, e dispregiata, e condannata, s’apprezzavano
anche allora per le cose, [2542]se in queste avevano merito, come accade
proporzionatamente ai nostri moderni, indipendentemente dalla lingua, dalla
purità e dall’eleganza.
5°
Ognuno de’ dialetti nazionali, fuori del suo distretto, è forestiero nella
stessa nazione. Gran parte de’ cinquecentisti, toscani o no, prosatori o poeti,
scrivevano, com’è noto, nel dialetto toscano, o se non altro n’infioravano i
loro scritti. Con ciò erano stimati eleganti. Ma benchè scrivessero nel
dialetto toscano del tempo loro, quest’eleganza, presso tutti i lettori
non toscani, veniva anch’essa dal pellegrino. Ed anche presso i toscani veniva
dal pellegrino, a causa che trasportandosi nelle scritture voci e modi popolari
e perciò insoliti ad essere scritti, questi riuscivano straordinarii anche per
li toscani, non in se ma nelle scritture. Ed ho spiegato altrove come anche la
familiarità nello scrivere, e le voci e modi ordinari, riescano eleganti, [2543]non
come ordinarii, anzi come straordinarii e pellegrini nella scrittura ordinata,
studiata, civile (politik¯), e colta. E ciò massimamente
nella poesia, dove molti adoperavano il volgare toscano, anche in poesia non
burlesca, come fa il Firenzuola ec. In somma lo stesso linguaggio popolare
molte volte dà eleganza agli scritti, perciò appunto ch’essendo popolare, non è
domestico collo scriver de’ letterati, e vi riesce pellegrino. Aggiungi che a
gran parte degli stessi lettori toscani (naturalmente non plebei) riuscivano e
riescono nuove o poco familiari molte voci de’ loro o d’altri scrittori, tolte
dalla lingua del loro popolo. Del resto l’eleganza derivante dall’uso del
dialetto toscano nel colto scrivere, talvolta è minore per li toscani come poco
pellegrina, o come triviale; talvolta maggiore, come non troppo pellegrina, nè
tanto straordinaria che degeneri in disconveniente, affettato ec. siccome
spesso fa per gli altri italiani. I toscani accusano il Botta fiorentinizzante
nella sua storia, come troppo triviale e pedestre, e insomma inelegante. E in
genere l’eleganza ch’essi ne sentono, e [2544]quella che deriva dal
familiare, dal popolare ec. nel colto scrivere, è d’un altro sapore e d’un’altra
qualità dall’eleganza ch’è prodotta dall’assoluto pellegrino: non essendo
pellegrino per chi legge, il familiare e il popolare, se non relativamente,
cioè rispetto alla colta scrittura.
Quello
ch’altrove ho detto del modo che in greco si chiama la malattia, cioè debolezza
(ŽsJ¡neia), si deve anche dire del latino, infirmitas, infirmus.
(4. Luglio. 1822.). Così anche languor ec.
Della
vita e condizione d’Omero ogni cosa è nascosta. E pure in questa universale
ignoranza, una tradizione antichissima ed universale e perpetua si mantiene, e
tutti, che tutto ignorano intorno a lui, questo solo n’affermano ed hanno per
certo, che fosse povero e misero. Così la fama non ha voluto che si dubiti, nè
che resti nel puro termine di congettura che il primo e il sommo de’ [2545]poeti
incontrasse la sorte comune di quelli che lo seguirono. Ed ha confermato coll’esempio
dell’Žrxhgòw di questa infelice famiglia, che qualunque è d’animo
veramente e fortemente poetico (intendo ogni uomo di viva immaginazione e di
vivo sentimento, scriva o no, in prosa o in verso) nasce infallibilmente
destinato all’infelicità.
Gli
uomini semplici e naturali sono molto più dilettati e trovano molto più
grazioso il colto, lo studiato e anche l’affettato che il semplice e il
naturale. Per lo contrario non v’è qualità nè cosa più graziosa per gli uomini
civili e colti che il semplice e il naturale, voci che nelle nostre lingue e ne’
nostri discorsi sono bene spesso sinonime di grazioso, e confuse con questa,
come si confonde la grazia colla naturalezza e semplicità, credendo che sieno
essenzialmente, e per natura, e per se stesse, [2546]qualità graziose.
Nel che c’inganniamo. Grazioso non è altro che lo straordinario in quanto
straordinario, appartenente al bello, dentro i termini della convenienza. Il
troppo semplice non è grazioso. Troppo semplice sarà una cosa per li francesi,
e non lo sarà per noi. Lo sarà anche per noi, e con tutto questo sarà ancora al
di qua del naturale. (Tanto siamo lontani dalla natura, e tanto ella ci riesce
straordinaria). Viceversa dico del civile rispetto ai selvaggi, naturali,
incolti ec. Del resto possiamo vedere anche nelle nostre contadine che sono
molto poco allettate dal semplice e dal naturale, o per lo meno sono tanto
allettate dal nostro modo artefatto, quanto noi dalla loro naturalezza, o
reale, o dipinta ne’ poemi ec.
(4.
Luglio 1822.)
Le Dee e
specialmente Giunone, è chiamata spesso da Omero boÇpiw (boÅpidow) [2547]cioè ch’ha occhi
di bue. La grandezza degli occhi del bue, alla quale Omero ha riguardo, è
certo sproporzionata al viso dell’uomo. Nondimeno i greci intendentissimi del
bello, non temevano di usar questa esagerazione in lode delle bellezze
donnesche, e di attribuire e appropriar questo titolo, come titolo di bellezza,
indipendentemente anche dal resto, e come contenente una bellezza in se,
contuttochè contenga una sproporzione. E in fatti non solo è bellezza per tutti
gli uomini e per tutte le donne (che non sieno, come sono molti, di gusto
barbaro) la grandezza degli occhi, ma anche un certo eccesso di questa
grandezza, se anche si nota come straordinario, e colpisce, e desta il senso
della sconvenienza, non lascia perciò di piacere, e non si chiama bruttezza. E
notate che non così accade dell’altre parti umane alle quali conviene esser
grandi (lascio l’osceno che appartiene ad [2548]altre ragioni di
piacere, diverse dal bello): nè i poeti greci, nè verun altro poeta o scrittore
di buon gusto, ha mai creduto che l’esagerazione della grandezza di tali altre
parti fosse una lode per esse, e un titolo di bellezza, come hanno fatto
relativamente agli occhi. Dalle quali cose deducete
1°.
Quanto sia vero che gli occhi sono la principal parte della sembianza umana, e
tanto più belli quanto più notabili, e quindi quanto più vivi. E che in essi
veramente si dipinge la vita e l’anima dell’uomo (e degli animali); e però
quanto più son grandi, tanto maggiore apparisce realmente l’anima e la
vitalità e la vita interna dell’animale. (Nè quest’apparenza è vana.) Per la
qual cosa accade che la grandezza loro è piacevole ancorchè sproporzionata,
indicando e dimostrando maggior quantità e misura di vita. 2°. Quanta [2549]parte
di quella che si chiama bellezza e bruttezza umana sia indipendente ed aliena
dalla convenienza, e quindi dalla propria teoria del bello. Giacchè, come
accade nel nostro caso, anche quello ch’è sproporzionato e fuor della misura
ordinaria, piace a causa dell’inclinazione ch’ha l’uomo alla vita, e si chiama
bello. Ma di questo bello è cagione, non già la convenienza, ma la detta
inclinazione e qualità umana indipendente dalla convenienza, e in dispetto
della convenienza, e quindi del vero, proprio e preciso bello.
(4.
Luglio. 1822.)
La
quistione se il suicidio giovi o non giovi all’uomo (al che si riduce il sapere
se sia o no ragionevole e preeleggibile), si ristringe in questi puri termini.
Qual delle due cose è la migliore, il patire o il non patire? Quanto al piacere
è cosa certa, [2550]immutabile e perpetua che l’uomo in qualunque
condizione della vita, anche felicissima secondo il linguaggio comune, non lo
può provare, giacchè, come ho dimostrato altrove, il piacere è sempre futuro, e
non mai presente. E come, per conseguenza, ciascun uomo dev’essere fisicamente
certo di non provar mai piacere alcuno in sua vita, così anche ciascuno dev’esser
certo di non passar giorno senza patimento, e la massima parte degli uomini è
certa di non passar giorno senza patimenti molti e gravi, ed alcuni son certi
di non passarne senza lunghissimi e gravissimi (che sono i così detti infelici;
poveri, malati insanabili, ec. ec.). Ora io torno a dimandare qual cosa sia
migliore, se il patire o il non patire. Certo il godere, fors’anche il godere e
patire sarebbe meglio del semplice non patire, (giacchè la natura e l’amor
proprio ci spinge e trasporta tanto verso il godere, che c’è più grato il
godere e patire, del non essere e non patire, e non essendo non poter godere)
ma il godere essendo impossibile all’uomo, resta escluso necessariamente e per
natura [2551]da tutta la quistione. E si conchiude ch’essendo all’uomo
più giovevole il non patire che il patire, e non potendo vivere senza patire, è
matematicamente vero e certo che l’assoluto non essere giova e conviene all’uomo
più dell’essere. E che l’essere nuoce precisamente all’uomo. E però chiunque
vive (tolta la religione), vive per puro e formale error di calcolo: intendo il
calcolo delle utilità. Errore moltiplicato tante volte quanti sono gl’istanti della
nostra vita, in ciascuno de’ quali noi preferiamo il vivere al non vivere.
E lo preferiamo col fatto non meno che coll’intenzione, col desiderio, e col
discorso più o meno espresso, più o meno tacito ed implicito della nostra
mente. Effetto dell’amor proprio ingannato come in tante altre cattive elezioni
ch’egli fa considerandole sotto l’aspetto di bene, e del massimo bene che gli
convenga in quelle tali circostanze.
[2552]Che poi l’uomo debba esser certo di
non passar giorno senza patimento, il che potrebbe parere una parte non
abbastanza provata in questo mio ragionamento, lasciando stare i mali e dolori
accidentali che intervengono inevitabilmente a tutti gli uomini, si
dimostra anche dalla medesima proposizione la quale afferma che l’uomo dev’esser
certo di non provar piacere alcuno in sua vita. Perocchè l’assenza, la
mancanza, la negazione del piacere al quale il vivente tende come a suo sommo
ed unico fine, perpetuamente, e in ciascuno istante, per natura, per essenza,
per amor proprio inseparabile da lui; la negazione, dico, del piacere il quale
è la perfezione della vita, non è un semplice non godere, ma è un patire (come
ho dimostrato nella teoria del piacere): perocchè l’uomo e [2553]il
vivente non può esser privo della perfezione della sua esistenza, e quindi
della sua felicità, senza patire, e senza infelicità. E tra la felicità e l’infelicità
non v’è condizione di mezzo. Quella è il fine necessario, continuo e perpetuo
di tutti gli atti esterni ed interni, e di tutta la vita dell’animale. Non ottenendolo,
l’animale è infelice; e questo in ciascuno di quei momenti, nei quali
desiderando il detto fine, ossia la felicità, infinitamente, come fa sempre,
non l’ottiene e n’è privo, come lo è sempre. E però l’uomo dev’esser
fisicamente certo di non passar, non dico giorno, ma istante, senza patire. E
tutta la vita è veramente, per propria natura immutabile, un tessuto di
patimenti necessarii, e ciascuno istante che la compone è un patimento.
Di più l’uomo
dev’esser certo di provare in vita sua più o meno, maggiori [2554]o
minori, ma certo gravi e non pochi di quei patimenti accidentali che si
chiamano mali, dolori, sventure, o che provengono dai vari desiderii dell’uomo
ec. E quando anche questi non dovessero comporre in tutto se non la menoma
parte della sua vita, (com’è certo che ne comporranno la massima), essendo egli
d’altra parte certissimo di passar tutta la vita senza un piacere, la quistione
ritorna a’ suoi primi termini, cioè se essendo meglio il non patire che il
patire, e non potendosi vivere senza patire, sia meglio il vivere o il non
vivere. Un solo, anche menomo dolore riconosciuto per inevitabile nella vita,
non avendo per controbilancio neppure un solo e menomo piacere, basta a far che
l’essere noccia all’esistente, e che il non essere sia preferibile all’essere.
Tutto
questo essendo applicabile ad [2555]ogni genere di viventi in qualunque
loro condizione (niuno de’ quali può esser felice, e quindi non essere
infelice, e non patire) e d’altronde posando sopra principii e fondamenti
quanto profondi altrettanto certissimi, e immobili, ed essendo esattissimamente
ragionato e dedotto, e strettamente conseguente, serva a far conoscere la
distruttiva natura della semplice ragione, della metafisica, e della
dialettica, in virtù delle quali tutto il mondo vivente, dovrebb’esser perito,
per volontà e per opera propria, poco dopo il suo nascere.
Alla
p.2529. Finchè il giovane conserva della tenerezza verso se stesso, vale
a dire che si ama di quel vivo e sensitivissimo e sensibilissimo amore ch’è naturale, e finchè non si getta via nel mondo,
considerandosi, dirò quasi, come un altro, non fa mai nè può far altro che
patire, e non gode mai un istante di bene e di piacere nell’uso e negli
accidenti della vita sociale. (6. Luglio. 1822.). A goder della vita, è
necessario uno stato di disperazione.
[2556]Il grand’uso che gl’italiani (forse
anche gli spagnuoli e i francesi) fanno della preposizione compositiva di
o dis nel senso negativo (come disamore, disfavorire; e
per apocope in questo e mill’altri casi, sfavorire; disutile, e
mill’altre da formarsi anche a piacere: v. la Crusca), essendo molto poco e
scarso nel latino scritto (come in dispar dissimilis discalceatus
dove il dis nega: v. il Forcell. in di), e d’altra parte non
significando niente in italiano, in francese in ispagnuolo la detta
preposizione per se (la quale sembra venire dal greco dçw usata come in dus¡rvw, dusvpÛa, dustux¯w), par che dimostri d’essere stato
molto più comune nel latino volgare di quello che nello scritto, e d’aver
tenuto il luogo di vera particella negativa, così frequente e manuale nella
composizione come la greca a privativa, e come lo è la detta particella presso di
noi ad arbitrio del parlatore o scrittore che ha bisogno d’un [2557]qualunque
composto che dica il contrario di quel che dice la tale o tal altra radice
italiana. Del resto il dis latino nelle parole dissimilis, dispar,
secondo me, ha più tosto una tal qual forza disgiuntiva, che veramente
negativa. E in discalceatus, discingo ec. io credo che
propriamente abbia piuttosto la forza del greco Žpò in composizione (come qui appunto Žpozvnnæv discingo), e del latino ex pure in
composizione, (come appunto excalceatus ch’è lo stesso), di quello che
la vera forza privativa del greco a che tiene presso di noi, sebbene discalceatus ec. passò poi a significar privativamente senza scarpe. E forse in
questa maniera, cioè dalla forza di Žpò, e di ex composti, passò la
particola dis presso di noi, al significato assoluto di privazione o
negazione. Ma vedendosi p.e. dalla voce discalceatus (e v. il Forcell. [2558]in
Dis...) che questo passaggio l’avea fatto la detta preposizione anche fra gli
antichi latini, si dimostra quel ch’io dissi da principio, cioè che il suo uso
negativo o privativo, così frequente e familiare come nel latino scritto non si
trova, ci dev’esser venuto dal latino volgare.
Quanto
gli uomini sieno allontanati dalla vera loro natura, dalle qualità e distintivi
destinati alla loro specie, l’osservo anche nella gran differenza fisica che s’incontra
fra gli uomini da individuo a individuo. Lascio i mostri, difettosi ec. dalla
nascita, o dopo la nascita, che sono infiniti presso gli uomini; e fra
qualunque genere d’animali appena se ne troverà uno per mille dei nostri, in
proporzione della numerosità della specie: anche escludendo affatto quelli che
tra gli uomini hanno contratto imperfezioni fisiche, per cause accidentali,
visibili, [2559]e se non facili, almeno possibili ad evitarsi. Lascio
gli Etiopi, gli Americani che non avevano barba, certe differenze di costruzione
negli Ottentotti, i Patagoni (se ve n’ha), i Lapponi (che forse nascono e
vivono in un clima non destinato dalla natura alla specie umana, come a
tante altre specie d’animali, piante ec. ha negato questo o quel clima, o paese
ec. o tutti i climi e paesi, fuorchè un solo.). Tutto ciò si potrà considerare
come differenze delle varie specie tra loro, dentro uno stesso genere, nel modo
che p.e. il genere dei cani ha diversissime specie, e diverse o in uno stesso
clima, e paese, o in diversi climi destinati a tale o tal altra di esse ec.
Ma che
in un medesimo clima, in un medesimo paese, da due medesimi genitori, nascano
dei figli così differenti fisicamente, come accade tra gli uomini, che [2560]di
due concittadini, di due fratelli, l’uno sarà p.e. di statura gigantesca, e di
temperamento robustissimo, l’altro fiacchissimo e piccolissimo; e che questo
accada indipendentemente da ogni causa visibile, o accidentale, o amovibile;
che accada nonostante una medesimissima educazione ed esercizio fisico; che
accada e resti manifestamente determinato fin dalla nascita dell’uno e dell’altro:
questo, dico io, in qual altra specie d’animali si trova? Specie, dico, e non
genere, perchè p.e. diverse specie di cani sono diversissime di grandezza, ma
non così gl’individui di ciascuna d’esse specie fra se stessi, neppur
pigliandoli da diverse famiglie, da diverse patrie, da diversi paesi, da
diversi climi.
E
fermandomi e ristringendomi alla differenza che passa fra le proporzioni
fisiche degl’individui umani, io dico che i [2561]due estremi di questa
differenza sono così lontani, che niun’altra specie d’animali, considerata
nelle stesse circostanze di famiglia, patria, clima ec. offre di grandissima
lunga due individui così differenti di grandezza come sono gl’individui umani
tutto giorno, e massimamente pigliandoli da’ due sopraddetti estremi.
Certo è
che la natura a ciascuna specie d’animali (come anche di piante ec.) ha
assegnato certe proporzioni nè tanto strette che l’uno individuo sia
precisamente della misura dell’altro, nè tanto larghe che non si possa quasi
definir nemmeno lassamente la grandezza propria degl’individui di quella
specie. Ora di qualunque specie d’animali vi discorra un naturalista, ve ne
dirà presso a poco la grandezza, e qualunque individuo voi ne veggiate,
corrisponderà, o si [2562]discosterà poco da quella, e in somma la
misura della grandezza sarà sempre per voi una qualità distintiva di quella specie d’animali, e pigliandola a un dipresso, (tanto più a un dipresso quanto la loro
grandezza specifica è maggiore assolutamente) non t’ingannerà mai. Poniamo
anche caso che d’una specie tu non abbia veduto se non un solo individuo, e che
questo sia l’estremo o della grandezza o della piccolezza della specie.
Ancorchè tu ti formi l’idea della grandezza di quella specie sopra quel solo
individuo, vedendone poi degli altri, non ti trovi ingannato gran cosa, nè
sproporzionatamente lontano dalla tua idea, nè per causa della differente
grandezza (purchè siano in fatto della medesima specie), ti accade di
non riconoscerli per individui di quella tale specie, o di dubitare che non lo
sieno. E ciò quando anche fossero gli estremi contrari del primo individuo da
te veduto.
[2563]Questo pensiero, considerate ben le
cose, trovo che non è vero, e però lo lascio a mezzo. La differenza delle
proporzioni fisiche tra gl’individui umani, ci par maggiore che nell’altre
cose, per le ragioni ch’ho detto altrove. Ma in realtà non è maggiore nè
sproporzionata relativamente, e n’esiste altrettanta fra gli altri individui
animali, in proporzione della loro maggiore o minor grandezza specifica, e
parlando sempre, come si deve, a un dipresso: benchè in essi animali non ci dia
così nell’occhio e non ci paia tanta. Ma colla misura facilmente si scopre che
la detta differenza negli animali è maggiore, e negli uomini è minore ch’a noi
non sembra.
L’uomo
non è perfettibile ma corrottibile. Non è più perfettibile ma più corrottibile
degli altri animali. È ridicolo, ma contuttociò è naturale, che la nostra
corrottibilità, e degenerabilità, e depravabilità, sia [2564]stata
presa, e si prenda a tutta bocca da’ più grandi e sottili e perspicaci e
avveduti ingegni e filosofi per perfettibilità.
Per lo
più noi riconosciamo alla sola voce anche senza vederle le persone da noi
conosciute, per moltiplici che siano le nostre conoscenze, per minima che sia
la diversità di tale o tal altra voce da un’altra, per pochissimo che noi
abbiamo praticata quella tal persona, o praticatala pure una sola volta. Non
così ci accade nelle voci degli animali, nelle quali, neppure avvertitamente
pensandoci, sappiamo riconoscer differenza tra molti individui d’una stessa
specie, o riconosciutane, non ci resta in mente. Anche, con difficoltà
riconosciamo le voci, p.e. in paese forestiero di lingua, o dialetto, pronunzia
ec., e le confondiamo spesso; almeno a principio. L’ho osservato in me. Effetti
dell’assuefazione, dell’attenzione parziale e minuta ec. da riferirsi a quei
pensieri dove ho portato altri esempi simili.
[2565]Noi abbiamo oscuro da obscurus,
e scuro. Obscurus è certo un composto, come dimostra la
preposizione ob. Tolta la quale resta scurus. Che questa voce
esistesse una volta, non si può dubitare, dovendo esistere il semplice prima
del composto. V. il Forcell. Obscurus, principio. Ma questa voce ignota
presso i latini, si conserva nell’italiano. E questa medesima è una prova ch’esistesse,
come viceversa le cose dette sono una prova che la nostra voce sia antica, e
venutaci col volgare latino. Osservate se credeste che scuro fosse fatto
per apocope volgare da oscuro, che l’apocope dell’o iniziale, per
quello che mi pare, non è punto in uso nel nostro popolo.
Ho
notato, mi pare, in Floro, il quoque messo innanzi alla voce da cui
dipende. Vedilo similmente nella Volgata Gen. 12. v.8. confrontando questo
versetto col precedente.
(12.
Luglio 1822.)
[2566]È egli possibile che nella morte v’abbia niente di vivo? anzi ch’ella sia un non so che di vivo per
natura sua? come dunque credere che la morte rechi, e sia essa stessa, e non
possa non recare un dolor vivissimo? Quando tutti i sentimenti vitali, e soli
capaci del dolore o del piacere, sono non solamente intorpiditi come nel sonno
o nell’asfissia ec. (ne’ quali casi ancora, le punture, i bottoni di fuoco ec.
o non danno dolore, o ne danno meno dell’ordinario, in proporzione dell’intorpidimento,
della gravezza p.e. del sonno, ch’è minore o maggiore, com’è somma nell’ubbriaco)
ma anzi il meno vitali, il meno suscettibili e vivi che si possa mai pensare,
essendo quello il punto in cui si spengono per sempre, e lasciano d’esser
sentimenti. Il punto in cui la capacità di sentir dolore s’estingue
interamente, ha da esser un punto di sommo dolore? Anzi non può esser nemmeno
di dolore comunque, non potendosi concepir [2567]l’idea del dolore, se
non come di una cosa viva, e il vivo è inseparabile dal dolore, essendo questo
un irritamento, un aigrissement dei sensi, che si risentono, cosa
di cui non sono capaci nel punto in cui in vece di risentirsi, si dissentono per sempre. Così non si dee creder nemmeno che quel piacer fisico ch’io affermo
esser nella morte, sia un piacer vivo ma languidissimo. E il piacere, a
differenza del dolore, opera languidamente sui sensi, anzi osservate che il
piacer fisico per lo più consiste in qualche specie di languore, e il languor
de’ sensi è un piacere esso stesso. Però i sentimenti ne son capaci anche
estinguendosi, e perciò medesimo che si estinguono.
Una
macchina dilicata (cioè più diligentemente e perfettamente organizzata) è più
facile a guastarsi che una rozza: ma ciò non [2568]toglie che la non sia
più perfetta di questa, e che andando come deve andare non vada meglio della
rozza, supponendole anche tutt’e due in uno stesso genere, come due orologi.
Così l’uomo è più dilicato assai di tutti gli altri animali, sì nella
costruzione esterna, sì nelle fibre intellettuali. E perciò egli è senza dubbio
il più perfetto nella scala degli animali. Ma ciò non prova ch’egli sia
più perfettibile; bensì più guastabile, appunto perchè più delicato. E d’altra
parte l’esser più facile a guastarsi, non toglie che non sia veramente la più
perfetta delle creature terrestri, come ogni cosa lo dimostra.
Tutto è
arte, e tutto fa l’arte fra gli uomini. Galanteria, commercio civile, cura de’
propri negozi o degli altrui, carriere pubbliche, amministrazione politica
interiore ed esteriore, letteratura; in tutte queste [2569]cose, e s’altre
ve ne sono, riesce meglio chi v’adopra più arte. In letteratura, (lasciando
stare quel che spetta alla politica letteraria, e al modo di governarsi col
mondo letterato) colui che scrive con più arte i suoi pensieri, è sempre quello
che trionfa, e che meglio arriva all’immortalità, sieno pure i suoi pensieri di
poco conto, e sieno pure importantissimi e originalissimi quelli d’un altro che
non abbia sufficiente arte nello scrivere: il quale non riuscirà mai a farsi
nome, e ad esser letto con piacere, e nemmeno a far valutare, e pigliare in
considerazione e studio i suoi pensieri. La natura ha certamente la sua parte,
e la sua gran forza; ma quanta sia la parte e la forza della natura in tutte
queste cose, rispettivamente a quella dell’arte, mi pare che dopo le gran
dispute che se ne son fatte, si possa determinare in questo modo, e precisare [2570]in
questi termini. Supposto in due persone ugual grado d’arte, quella ch’è
superiore per natura, riesce certamente meglio dell’altra nelle sue imprese.
Datemi due persone che sappiano ugualmente scrivere. Quella che ha più genio,
sicuramente trionfa nel giudizio de’ posteri e della verità. Datemi due galanti
egualmente bravi nel mestier loro. Quello ch’è più bello (in parità d’altre
circostanze, come ricchezza, fortuna d’ogni genere, comodità ed occasioni
particolari ec.) soverchia sicuramente l’altro. Ma ponete un uomo bellissimo
senz’arte di trattar le donne; un gran genio senza scienza o pratica dello
scrivere; e dall’altra parte un bruttissimo bene ammaestrato e pratico della
galanteria, un uomo freddissimo bene istruito ed esercitato nella maniera d’esporre
i propri pensieri, questi due si godranno le donne e la gloria, e quegli altri
due staranno indubitatamente a vedere. Dal che si deduce che in ultima [2571]analisi
la forza dell’arte nelle cose umane è maggiore assai che non è quella della
natura. Lucano era forse maggior genio di Virgilio, nè perciò resta che sia
stato maggior poeta, e riuscito meglio nella sua impresa; anzi che veruno lo
stimi nemmeno paragonabile a Virgilio.
Queste
considerazioni debbono determinare secondo me la parte che ha la natura in
quello che si chiama talento, cioè quanto v’abbia di naturale e d’innato nelle
facoltà intellettuali di qualunque individuo. Sebbene il talento si consideri
come cosa affatto naturale, non è di gran lunga così, come ho mostrato altrove.
Ma non è nemmen vero ch’egli sia tutto effetto delle circostanze e assuefazioni
acquisite: come si dimostra cogli esempi e comparazioni precedenti. Certo è
bensì che di due talenti uguali per natura, ma l’uno [2572]coltivato e l’altro
non coltivato, quello si chiama talento, e questo neppur si chiama così, non
che sia messo al paro di quello. Dal che di nuovo s’inferisce che la maggior
parte del talento umano, e delle facoltà intellettuali è opera delle
assuefazioni, e non della natura, è acquisita e non innata;
benchè non si fosse potuta acquistare in quel grado senza possedere
primitivamente quell’altra minor parte, o sia disposizione naturale, e
assuefabilità, suscettibilità, conformabilità.
Dire che
la lingua latina è figlia della greca, perchè vi si trovano molte parole e modi
greci introdottivi parte dalla letteratura, parte dal commercio e
vicinanza delle colonie greco-italiane, parte dall’antico commercio avuto colla
nazione greca sempre mercatrice, parte derivanti dalla stessa comune origine d’ambe
le lingue, è lo stesso appunto che vedendo la nostra presente [2573]lingua
italiana piena di francesismi, e modellata sulla francese, conchiudere che la
lingua italiana è figlia della francese. Anzi v’ha più di francese nella
presente lingua italiana (che è quasi una traduzione, e una scimia della
francese) di quel che v’abbia di greco nella lingua latina, massime poi dell’antica.
Del resto la parità va molto bene a proposito, perchè infatti le lingue
italiana e francese sono appunto sorelle, come la greca e la latina.
Omero è
il padre e il perpetuo principe di tutti i poeti del mondo. Queste due qualità
di padre e principe non si riuniscono in verun altro uomo rispetto a verun’altra
arte o scienza umana. Di più, nessuno riconosciuto per principe in qualunque
altra arte o scienza, se ne può con questa sicurezza, cagionata dall’esperienza
di tanti secoli, chiamar principe [2574]perpetuo. Tale è la natura della
poesia ch’ella sia somma nel cominciare. Dico somma e inarrivabile in appresso
in quanto puramente poesia, ed in quanto vera poesia, non in quanto allo stile
ec. ec. Esempio ripetuto in Dante, che in quanto poeta, non ebbe nè avrà mai
pari fra gl’italiani.
Non c’è
virtù in un popolo senz’amor patrio, come ho dimostrato altrove. Vogliono che
basti la Religione. I tempi barbari, bassi ec. erano religiosi fino alla
superstizione, e la virtù dov’era? Se per religione intendono la pratica della
medesima, vengono a dire che non c’è virtù senza virtù. Chi è religioso in
pratica, è virtuoso. Se intendono la teorica, e la speranza e il timore delle
cose di là, l’esperienza di tutti i tempi dimostra che questa non basta a fare
un popolo attualmente e praticamente virtuoso. L’uomo, e specialmente [2575]la
moltitudine non è fisicamente capace di uno stato continuo di riflessione. Or
quello ch’è lontano, quello che non si vede, quello che dee venir dopo la
morte, dalla quale ciascuno naturalmente si figura d’esser lontanissimo, non
può fortemente costantemente ed efficacemente influire sulle azioni e sulla
vita, se non di chi tutto giorno riflettesse. Appena l’uomo entra nel mondo,
anzi appena egli esce dal suo interno (nel quale il più degli uomini non entra
mai, e ciò per natura propria) le cose che influiscono su di lui, sono le
presenti, le sensibili, o quelle le cui immagini sono suscitate e fomentate
dalle cose in qualunque modo sensibili: non già le cose, che oltre all’esser
lontane, appartengono ad uno stato di natura diversa dalla nostra presente,
cioè al nostro stato dopo la morte, e quindi, vivendo noi necessariamente fra [2576]la
materia, e fra questa presente natura, appena le sappiamo considerare come
esistenti, giacchè non hanno che far punto con niente di quello la cui
esistenza sperimentiamo, e trattiamo, e sentiamo ec. La conchiusione è che
tolta alla virtù una ragione presente, o vicina, e sensibile, e tuttogiorno
posta dinanzi a noi; tolta dico questa ragione alla virtù (la qual ragione,
come ho provato, non può esser che l’amor patrio), è tolta anche la virtù: e la
ragione lontana, insensibile, e soprattutto, estrinseca affatto alla natura
della vita presente, e delle cose in cui la virtù si deve esercitare, questa
ragione, dico, non sarà mai sufficiente all’attuale e pratica virtù dell’uomo,
e molto meno della moltitudine, se non forse ne’ primi anni, in cui dura il
fervore della nuova opinione, come nel primo secolo del Cristianesimo
(corrotto già nel secondo. [2577]V. i SS. Padri.)
(21.
Luglio 1822.)
Alla
p.2558. Anche gli spagnuoli hanno la particella compositiva des
corrispondente al nostro dis, ed è fra loro frequentissima. Queste
spesso significano cessazione, come desamparar, disguardare, dismettere (che vuol dir cessare da un’opera ec. laddove intermettere vale lasciarla
per un poco) ec. ec. Tali particelle potrebbono venire dalla latina de
corrotta in des o dis, come da dedignari, disdegnare,
desdeñar, ec. e il sopraddetto dismettere forse viene da dimittere
che in molti significati non ha la forza della particella di, ma di de,
mutata forse in di per la composizione o per corruzione. V. il Forcell.
in Dimitto. In ogni modo i nostri composti formati colla particella dis,
e gli spagnuoli colla des, ec. possono dimostrare l’esistenza antica di
molti tali composti nel latino volgare, non conosciuti nel latino scritto: [2578]o
che in esso volgare la detta particella si pronunziasse de, o dis,
come abbiamo anche veduto, o nell’un modo e nell’altro, o comunque.
La
lingua latina ebbe un modello d’altra lingua regolata, ordinata, e stabilita,
su cui formarsi. Ciò fu la greca, la quale non n’ebbe alcuno. Tutte le cose
umane si perfezionano grado per grado. L’aver avuto un modello, al contrario
della lingua greca, fu cagione che la lingua latina fosse più perfetta della
greca, e altresì che fosse meno libera. (Nè più nè meno dico delle letterature
greca e latina rispettivamente; questa più perfetta, quella più originale e
indipendente e varia.) I primi scrittori greci, anche sommi, ed aurei, come
Erodoto, Senofonte ec. erano i primi ad applicar la dialettica, e l’ordine
ragionato all’orazione. Non [2579]avevano alcun esempio di ciò sotto gli
occhi. Quindi, com’è naturale a chiunque incomincia, infinite sono le
aberrazioni loro dalla dialettica e dall’ordine ragionato. Le quali aberrazioni
passate poi e confermate nell’uso dello scrivere, sanzionate dall’autorità, e
dallo stesso errore di tali scrittori, sottoposte a regola esse pure, o
divenute regola esse medesime, si chiamarono, e si chiamano, e sono eleganze, e
proprietà della lingua greca. Così è accaduto alla lingua italiana. La ragione
è ch’ella fu molto e da molti scritta nel 300, secolo d’ignoranza, e che anche
allora fu applicata alla letteratura in modo sufficiente per far considerare
quel secolo come classico, dare autorità a quegli scrittori, presi in corpo e
in massa, e farli seguire da’ posteri. I greci o non avevano affatto alcuna
lingua coltivata a cui guardare, o se ve n’era, era molto lontana da loro, come
forse la sascrita, l’egiziana, ec. e poco o niente nota, neanche ai loro più
dotti. Gl’italiani n’avevano, cioè la [2580]latina e la greca. Ma quel
secolo ignorante non conosceva la greca, pochissimo la latina, massime la
latina buona e regolata. (Fors’anche molti conoscendo passabilmente il latino,
e fors’anche scrivendolo con passabile regolatezza, erano sregolatissimi in
italiano, per incapacità di applicar quelle regole a questa lingua, che tutto
dì favellavano sregolatamente; di conoscere o scoprire i rapporti delle cose
ec.) Quei pochi che conobbero un poco di latino, scrissero con ordine più
ragionato, come fecero principalmente i frati, Passavanti, F. Bartolommeo,
Cavalca ec. Dante, e più ancora il Petrarca e il Boccaccio che meglio di tutti
conoscevano il buono e vero latino, meno di tutti aberrarono dall’ordine
dialettico dell’orazione. Questi principalmente diedero autorità presso i
posteri a’ loro scrittori contemporanei, la massima parte ignoranti, non solo
di fatto, ma anche di professione laici e illetterati, e che non
pretendevano di scrivere se non per bisogno, come i nostri castaldi. I quali
abbondarono di sragionamenti, e disordini gramaticali d’ogni
sorta.
Di tali
aberrazioni n’hanno tutte le lingue quando si cominciano a scrivere, e tutte
nel séguito ne conservano più o meno, sotto il nome di proprietà loro, benchè
non sieno [2581]in origine e in sostanza, se non errori de’ loro primi
scrittori e letterati, perpetuati nell’uso della scrittura nazionale. Meno d’ogni
altra fra le antiche, n’ebbe o ne conservò la lingua latina, per la detta
ragione, fra l’altre. Meno di tutte fra l’antiche e le moderne, ne conserva la
lingua francese, non per altro se non perch’ella ha rinunziato e derogato e
fatta assolutamente irrita l’autorità de’ suoi scrittori antichi, i quali
abbondarono di tali aberrazioni o quanto gli altri, o più ancora. Parlo dei
veramente antichi, cioè del sec. 160. e non del 170. quando lo spirito, la
società e la conversazione francese era già in un alto grado di perfezione.
La
ricchezza, il numero e l’estensione, ampiezza ec. delle facoltà di una lingua,
è per lo più in proporzione del numero degli scrittori che la coltivarono prima
delle regole esatte, della grammatica, e della formazione del Vocabolario. La
lingua francese che ha rinunziato all’autorità di tutti gli scrittori propri
anteriori alla sua grammatica e al suo Vocabolario (ch’erano anche pochi e di
poco conto, e perciò hanno potuto essere scartati), è la meno ricca, e le sue
facoltà son più ristrette che non son quelle di qualunqu’altra lingua del
mondo. V. p.2592.
[2582]Il piacere che noi proviamo della
Satira, della commedia satirica, della raillerie, della maldicenza ec. o
nel farla o nel sentirla, non viene da altro se non dal sentimento o dall’opinione
della nostra superiorità sopra gli altri, che si desta in noi per le dette
cose, cioè in somma dall’odio nostro innato verso gli altri, conseguenza dell’amor
proprio che ci fa compiacere dello scorno e dell’abbassamento anche di quelli
che in niun modo si sono opposti o si possono opporre al nostro amor proprio, a’
nostri interessi ec., che niun danno, niun dispiacere, niuno incomodo ci hanno
mai recato, e fino anche della stessa specie umana; l’abbassamento della quale,
derisa nelle commedie o nelle satire ec. in astratto, e senza specificazione d’individui reali, lusinga esso medesimo la nostra innata misantropia. E dico
innata, perchè l’amor proprio, ch’è innato, non può star senza di [2583]lei.
(25.
Luglio, dì di S. Giacomo maggiore 1822.)
Adesso
chi nasce grande, nasce infelice. Non così anticamente, quando il mondo
abbondava e di pascolo (cioè di spettacolo e trattenimento), e di esercizio, e
di fini, e di premi all’anime grandi. Anzi a quei tempi era fortuna il nascer
grande come oggi il nascer nobile e ricco. Perocchè siccome nella monarchia
quelli che nascono di grande e ricca famiglia, ricevono le dignità, gli onori,
le cariche dalla mano dell’ostetrice (per servirmi di un’espressione di
Frontone ad Ver. l.2. ep.4. p.121.), così nè più nè meno accadeva anticamente ai
grandi e magnanimi e valorosi ingegni. I quali nelle circostanze, nell’attività
e nell’immensa vita di quei tempi, non potevano mancare di svilupparsi,
coltivarsi e formarsi; e sviluppati, formati e coltivati non potevano mancar di
prevalere e primeggiare; come oggidì possono esser certi di tutto il contrario. [2584]Lascio che quanto gli animi erano più grandi, tanto meglio erano
disposti a godere della vita, la quale in quei tempi non mancava, e di tanto
maggior vita erano capaci, e quindi di tanto maggior godimento; e
perciò ancora era da riputarsi a vera fortuna e privilegio della natura il
nascer grand’uomo, e s’aveva a considerare come un effettivo e
realizzabilissimo mezzo di felicità: all’opposto di quello che oggi interviene.
Nelle
parole si chiudono e quasi si legano le idee, come negli anelli le gemme, anzi
s’incarnano come l’anima nel corpo, facendo seco loro come una persona, in modo
che le idee sono inseparabili dalle parole, e divise non sono più quelle, sfuggono
all’intelletto e alla concezione, e non si ravvisano, come accadrebbe all’animo
nostro disgiunto dal corpo.
[2585]Ho paragonato altrove gli organi
intellettuali dell’uomo agli esteriori, e particolarmente alla mano, e
dimostrato che siccome questa non ha da natura veruna facoltà (anzi da
principio è inetta alle operazioni più facili e giornaliere), così niuna ne
portano gli organi intellettuali, ma solamente la disposizione o possibilità di
conseguirne, e questa più o meno secondo gl’individui. Nello stesso modo io non
dubito che se meglio si ponesse mente, si troverebbero anche negli organi
esteriori dell’uomo, p.e. nella mano, molte differenze di capacità, non solo
relativamente alle diverse assuefazioni, e al maggiore o minore esercizio di
detto organo, ma naturalmente, e indipendentemente da ogni cosa acquisita; come
accade negl’ingegni, che per natura sono qual più qual meno conformabili, e
disposti [2586]ad assuefarsi, cioè ad imparare. E forse a queste
differenze si vuole attribuire l’eccessiva e maravigliosa inabilità di alcuni
che non riescono (anche provandosi) a saper far colle loro mani quello che il
più degli uomini fanno tuttogiorno senza pure attendervi nè anche pensarvi; e l’altrettanto
mirabile facilità ch’altri hanno d’imparare senza studio, e d’eseguire
speditissimamente le più difficili operazioni manuali, che il più degli uomini
o non sanno fare, o non fanno se non adagio, e con attenzione. Vero è che si
trova molto minor differenza individuale fra la capacità generica della mano di
questo o di quello, che fra la capacità de’ vari ingegni. Ma questo nasce che
tutti in un modo o nell’altro esercitano la mano, e quindi le danno e
proccurano una certa abilità [2587]e assuefabilità generale: non così l’ingegno.
Ed è molto maggiore, generalmente parlando, il divario che passa fra l’esercizio
de’ diversi ingegni, che fra l’esercizio della mano de’ diversi individui.
Divario che non è naturale, e non ha che far colle disposizioni native di tali
organi.
È
frequentissimo e amplissimo nell’Italiano o nello Spagnuolo l’uso della voce termine nel suo plurale massimamente, la quale piglia diversi significati, secondo ch’ell’è
applicata. (Questi per lo più importano condizione, stato, essere sustantivo o cosa simile.) Vedi la Crus. Non così nel latino scritto, dov’essa
voce non ha che la forza di confine o limite ec. Pur vedi presso
il Forcell. nell’ultimo esempio di questa voce, ch’è di Plauto, una frase tutta
italiana e spagnuola, la qual può dimostrare che detta voce nel volgare latino
avesse o tutti o in parte quegli usi appunto ch’ell’ha nelle dette lingue. V.
Du Cange, s’ha nulla. V. anche l’Alberti Diz. franc. Terme in fine.
[2588]A un giovane il quale essendo
innamorato degli studi, diceva che della maniera di vivere, e della scienza
pratica degli uomini se n’imparano cento carte il giorno, rispose N. N. ma
il libro (ma gli è un libro) è da 15 o 20 milioni di carte.
Da coquere
diciamo cocere (che per più gentilezza e per proprietà italiana si
scrive cuocere) mutato il qu radicale, in c parimente
radicale. Che questa lettera fosse radicale anche ab antico si può raccogliere
dalla voce praecox (cioè praecocs) praecocis, la quale
(spogliata della prep. prae) forse contiene la radice di coquere.
E molte altre pronunzie volgari di voci derivate dal latino, si potrebbono
forse dimostrare antichissime con simili osservazioni delle loro radici (o già
note, o scopribili), delle voci loro affini ec. (30. Luglio. 1822.). V.
Forcellini Coquo, Praecox ec. e il Glossario.
Da
quello che altrove ho detto de’ numeri ec. si deduce che gli animali, non
avendo lingua, non sono capaci di concepir quantità determinata ec. se non
menoma, e ciò non per difetto di ragione, e insufficienza e scarsezza d’intendimento,
ma per la detta necessarissima causa. (30. Luglio 1822.). Onde l’idea della
quantità determinata (benchè cosa materialissima) è [2589]esclusivamente
propria dell’uomo.
La
letteratura greca fu per lungo tempo (anzi lunghissimo) l’unica del mondo
(allora ben noto): e la latina (quand’ella sorse) naturalissimamente non fu
degnata dai greci, essendo ella derivata in tutto dalla greca; e molto meno fu
da essi imitata. Come appunto i francesi poco degnano di conoscere e neppur pensano
d’imitare la letteratura russa o svedese, o l’inglese del tempo d’Anna, tutte
nate dalla loro. Così anche, la lingua greca fu l’unica formata e colta nel
mondo allora ben conosciuto (giacchè p.e. l’India non era ben conosciuta).
Queste ragioni fecero naturalmente che la letteratura e lingua greca si
conservassero tanto tempo incorrotte, che d’altrettanta durata non si conosce
altro esempio. Quanto alla lingua n’ho già detto altrove. Quanto alla
letteratura, lasciando stare Omero, è prodigiosa la durata della letteratura
greca non solo incorrotta, ma nello stato di creatrice. Da Pindaro,
Erodoto, Anacreonte, Saffo, Mimnermo, gli altri lirici ec. ella dura senza
interruzione fino a Demostene; se non che, dal tempo di Tucidide a Demostene,
ella si restringe alla sola Atene per [2590]circostanze ch’ora non
accade esporre. V. Velleio lib.1. fine. Nati, anzi propagati e adulti i sofisti
e cominciata la letteratura greca (non la lingua) a degenerare, (massime per la
perdita della libertà, da Alessandro, cioè da Demostene in poi), ella con
pochissimo intervallo risorge in Sicilia e in Egitto, e ancora quasi in istato
di creatrice. Teocrito, Callimaco, Apollonio Rodio ec. Finito il suo stato di
creatrice, e dichiaratasi la letteratura greca imitatrice e figlia di se
stessa, cioè ridotta (come sempre a lungo andare interviene) allo studio e
imitazione de’ suoi propri classici antichi, l’esser questi classici, suoi, e
questa imitazione, di se stessa, la preserva dalla corruzione, e purissimi di
stile e di lingua riescono Dionigi Alicarnasseo, Polibio, e tutta la forŒ di scrittori greci contemporanei al buon tempo della letteratura latina;
i quali appartengono alla classe, e sono in tutto e per tutto una forŒ d’imitatori dell’antica letteratura greca, e di quella forŒ durevolissima di scrittori greci classici, ch’io chiamo forŒ creatrice. Corrotta già [2591]la letteratura latina, e sfruttata
e indebolita, la greca sopravvive alla sua figlia ed alunna, e s’ella produce
degli Aristidi, degli Erodi attici, e altri tali retori di niun conto nello
stile (non barbari però, e nella lingua purissimi), ella pur s’arricchisce d’un
Arriano, d’un Plutarco, d’un Luciano, ec. che quantunque imitatori, pur sanno
così bene scrivere, e maneggiar lo stile e la lingua antica o moderna, che
quasi in parte le rendono la facoltà creatrice. Aggiungi che in tal tempo la
Grecia, colla sua letteratura e lingua incorrotta, era serva, e l’Italia
signora colla sua letteratura e lingua imbastardita e impoverita.
(30.
Luglio 1822.)
La
storia di ciascuna lingua è la storia di quelli che la parlarono o la parlano,
e la storia delle lingue è la storia della mente umana. (L’histoire de
chaque langue est l’histoire des peuples qui l’ont parlée ou qui la parlent, et
l’histoire des langues est l’histoire de l’esprit humain.).
[2592]Intorno all’etimologia di
favellare. L’altre due voci sono FAVELLARE e CICALARE: l’una si è dir favole; e
CICALARE si è il cigolare degli uccelli. Cellini Discorso sopra la differenza nata
tra gli Scultori e Pittori circa il luogo destro stato dato alla Pittura nelle
Essequie del gran Michelagnolo Bonarroti. fine. Opere di Benvenuto Cellini,
Mil. 1806-11. vol. 3. p.261. Parla di tre voci che s’usano in lingua toscana
per esprimere il parlare, e la prima detta dal Cellini si è ragionare, il che
egli dice che vuol fare, e non favellare nè cicalare. (2. Agosto, dì del
perdono. 1822.).
Le
stelle, i pianeti ec. si chiamano più o men belle, secondo che sono più o meno
lucide. Così il sole e la luna secondo che son chiari e nitidi. Questa così
detta bellezza non appartiene alla speculazione del bello, e vuol dir solamente
che il lucido, per natura, è dilettevole all’occhio nostro, e rallegra l’animo
ec. ec.
Alla
p.2581. marg. Fra le lingue antiche, la greca non solo ebbe infiniti scrittori
prima della sua grammatica, ma prima ancora d’ogni grammatica conosciuta.
Quindi la sua inesauribile ricchezza, e la sua assoluta onnipotenza. La lingua
latina per [2593]verità non dico che avesse Vocabolari (sebbene ebbe
forse parecchie nomenclature ec. come la greca col tempo ebbe i suoi libri
detti ƒAttikistaÜ ec. ec.), e certo ebbe parecchi scrittori anteriori alla sua grammatica
(fra’ quali se vogliamo porre Cicerone, sarà certo che questi furono i
migliori), ma la grammatica essa già l’aveva in quella della lingua greca,
studiando la qual lingua per principii e nelle scuole ec. (cosa che i greci non
avevano mai fatto con altra lingua del mondo) necessariamente i latini
imparavano le regole universali della grammatica e l’analisi esatta del
linguaggio, e applicavano tutto ciò alla lingua loro: lasciando star gl’infiniti
libri di grammatica greca che già s’avevano dal tempo de’ Tolomei in giù.
Quindi la lingua latina, per antica, riuscì meno libera e meno varia d’ogni
altra. Laddove la lingua italiana scritta primieramente da tanti che nulla
sapevano dell’analisi del linguaggio (poco o nulla studiando altra lingua e
grammatica, come sarebbe stata la latina), venne, per lingua moderna, similissima
di ricchezza e d’onnipotenza alla greca. La lingua tedesca ha veramente [2594]grammatica,
ma non so quanto sia rispettata dagli scrittori tedeschi; ovvero le eccezioni
superando le regole, queste vengono ad essere illusorie, e il grammatico non
può far altro ch’andar qua e là dietro chi scrive, per vedere e notar come
scrivono. Di più ella non ha vocabolario riconosciuto per autorevole, e questo
in una lingua moderna è una gran cosa conducentissima alla ricchezza, potenza,
libertà della lingua.
Ho detto
altrove che le voci greche nelle lingue nostre non sono altro che termini (in
proporzione però del tempo da ch’elle vi sono introdotte: p.e. filosofia e tali altre voci greche venuteci mediante il latino, sono alquanto più che
termini), cioè ch’elle non esprimono se non se una pura idea, senz’alcun’altra
concomitante. Per questa ragione appunto, oltre le altre notate altrove, le
voci greche sono infinitamente a proposito nelle nostre scuole e scienze,
perocch’elle rappresentano costantemente e schiettamente quella nuda, secca e
semplicissima idea alla quale sono state appropriate; e perciò servono alla
precisione [2595]molto meglio di quello che possano mai fare le voci
tolte dalle proprie lingue, le quali voci benchè fossero formate, composte ec.
di nuovo, sempre porterebbero seco qualche idea concomitante. Ma per questa
medesima ragione le voci greche sono intollerabili nella bella letteratura
(barbare poi nella poesia, benchè i francesi si facciano un pregio, un vezzo e
una galanteria d’introdurcele), dove intollerabili sono le idee secche e nude,
o la secca e nuda espressione delle idee.
A ciò
che ho detto altrove di quel verso dell’Alfieri, Disinventore od inventor
del nulla, soggiungi. Quest’appunto è la mirabile facoltà della lingua
greca, ch’ella esprime facilmente, senza sforzo, senza affettazione, pienamente
e chiarissimamente, in una sola parola, idee che l’altre lingue talvolta non
possono propriamente e interamente esprimere in nessun modo, non solo in una parola,
ma nè anche in più d’una. E questo non lo conseguisce la detta lingua per altro
mezzo che della immensa facoltà de’ composti.
[2596]Quanta sia l’influenza dell’opinione
e dell’assuefazione anche sui sensi, l’ho notato altrove coll’esempio del
gusto, che pur sembra uno de’ sensi più difficili ad essere influiti da altro
che dalle cose materiali. Aggiungo una prova evidente. Io mi ricordo molto bene
che da fanciullo mi piaceva effettivamente e parevami di buon sapore tutto
quello che (per qualunque motivo ch’essi s’avessero) m’era lodato per buono da
chi mi dava a mangiare. Moltissime delle quali cose, ch’effettivamente secondo
il gusto dei più, sono cattive, ora non solo non mi piacciono, ma mi
dispiacciono. Nè per tanto il mio gusto intorno ai detti cibi s’è mutato a un
tratto, ma appoco appoco, cioè di mano in mano che la mente mia s’è avvezzata a
giudicar da se, e s’è venuta rendendo indipendente dal giudizio e opinione
degli altri, e dalla prevenzione che preoccupa la sensazione. La qual
assuefazione ch’è propria dell’uomo, e ch’è generalissima, potrà essere
ridicolo, ma pur è verissimo il dire che influisce anche in queste minuzie, e
determina il giudizio [2597]del palato sulle sensazioni che se gli
offrono, e cambia il detto giudizio da quello che soleva essere prima della
detta assuefazione. In somma tutto nell’uomo ha bisogno di formarsi; anche il
palato: ed è cosa facilissimamente osservabile che il giudizio de’ fanciulli
sui sapori, e sui pregi e difetti dei cibi relativamente al gusto, è incertissimo,
confusissimo e imperfettissimo: e ch’essi in moltissimi, anzi nel più de’ casi
non provano punto nè il piacere che gli uomini fatti provano nel gustare tale o
tal cibo, nè il dispiacere nel gustarne tale o tal altro. Lascio i villani, e
la gente avvezza a mangiar poco, o male, o di poche qualità di cibi, il cui
giudizio intorno ai sapori (anzi il sentimento ch’essi ne provano) è poco meno
imperfetto e dubbio che quel dei fanciulli. Tutto ciò a causa dell’inesercizio
del palato.
Del
resto quello ch’io ho detto di me stesso, avviene indubitatamente a tutti, e
ciascuno se ne potrà ricordare. Perchè sebbene non tutti, col crescere, si
liberano dall’influenza della prevenzione, [2598]e acquistano l’abito di
giudicare da se generalmente parlando, pure, in quanto alle sensazioni
materiali, difficilmente possono mancare di acquistarlo, essendo cosa di cui
tutti gli spiriti sono capaci. Nondimeno anche questo va in proporzione degl’ingegni,
e della maggiore o minore conformabilità, ed io ho espressamente veduto uomini
di poco, o poco esercitato talento, durar lunghissimo tempo a compiacersi di
saporacci e alimentacci ai quali erano stati inclinati nella fanciullezza. E ho
veduto pochi uomini il cui spirito dalla fanciullezza in poi abbia fatto
notabile progresso, pochi, dico, n’ho veduti, che anche intorno ai cibi non
fossero mutati quasi interamente di gusto da quel ch’erano stati nella
puerizia.
Ben
potrebbono tuttavia esser poco conformabili i sensi esteriori, o qualcuno de’
medesimi, in un uomo di conformabilissimo ingegno. Ma si vede in realtà che
questo accade di rado, e per lo più la natura degli individui (come quella
delle specie, e dei generi, e come la natura universale) si corrisponde
appresso a poco in ciascuna sua parte. [2599]E in questo caso particolarmente
ciò è ben naturale, poichè la conformabilità non è altro che maggiore o minor
dilicatezza di organi e di costruzione; e difficilmente si trovano affatto
rozzi, duri, non pieghevoli i tali o tali organi in un individuo che sia
dilicatamente formato nell’altre sue parti. Come infatti è osservato da’ fisici
che l’uomo (della cui suprema conformabilità di mente diciamo altrove) è
parimente di tutti gli animali il più abituabile, e il più conformabile nel
fisico: però il genere umano vive in tutti i climi, e uno individuo medesimo in
vari climi ec. a differenza degli altri animali, piante ec. Così mi faceva
osservare in Firenze il Conte Paoli.
(6.
Agosto. 1822.)
L’uniformità
è certa cagione di noia. L’uniformità è noia, e la noia uniformità. D’uniformità
vi sono moltissime specie. V’è anche l’uniformità prodotta dalla continua
varietà, e questa pure è noia, come ho detto altrove, e provatolo con esempi. V’è
la continuità di tale o tal piacere, la qual continuità è uniformità, e perciò
noia ancor essa, benchè il suo soggetto sia il piacere. Quegli sciocchi poeti,
i quali vedendo che le descrizioni nella poesia sono piacevoli hanno ridotto la
poesia a continue descrizioni, hanno tolto il piacere, e sostituitagli la noia
(come i bravi poeti stranieri moderni, detti descrittivi): ed io ho
veduto persone di niuna letteratura, leggere avidamente l’Eneide [2600](ridotta
nella loro lingua) la qual par che non possa esser gustata da chi non è
intendente, e gettar via dopo i primi libri le Metamorfosi, che pur paiono
scritte per chi si vuol divertire con poca spesa. Vedi quello che dice Omero in
persona di Menelao: Di tutto è sazietà, della cetra, del sonno ec. La
continuità de’ piaceri, (benchè fra loro diversissimi) o di cose poco
differenti dai piaceri, anch’essa è uniformità, e però noia, e però nemica del
piacere. E siccome la felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de’
piaceri (qualunque si sieno) è nemica della felicità per natura sua, essendo
nemica e distruttiva del piacere. La Natura ha proccurato in tutti i modi la
felicità degli animali. Quindi ell’ha dovuto allontanare e vietare agli animali
la continuità dei piaceri. (Di più abbiamo veduto parecchie volte come la
Natura ha combattuto la noia in tutti i modi possibili, ed avutala in quell’orrore
che gli antichi le attribuivano rispetto al vuoto.) Ecco come i mali vengono ad
esser necessarii alla stessa felicità, e pigliano vera e reale essenza [2601]di
beni nell’ordine generale della natura: massimamente che le cose indifferenti,
cioè non beni e non mali, sono cagioni di noia per se, come ho provato altrove,
e di più non interrompono il piacere, e quindi non distruggono l’uniformità,
così vivamente e pienamente come fanno, e soli possono fare, i mali. Laonde le
convulsioni degli elementi e altre tali cose che cagionano l’affanno e il male
del timore all’uomo naturale o civile, e parimente agli animali ec. le
infermità, e cent’altri mali inevitabili ai viventi, anche nello stato
primitivo, (i quali mali benchè accidentali uno per uno, forse il genere e l’università
loro non è accidentale) si riconoscono per conducenti, e in certo modo
necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e
collocati e ricevuti nell’ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla
predetta felicità. E ciò non solo perch’essi mali danno risalto ai beni, e
perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma
perchè senza essi mali, i beni [2602]non sarebbero neppur beni a poco
andare, venendo a noia, e non essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri,
e non potendo la sensazione del piacere, in quanto realmente piacevole, durar
lungo tempo ec.
…Erga n¡vn, boulaÜ d¢ m¡svn, eçxaÜ d¢ gerñntvn. Verso di non so qual poeta
antico, applicabile e proporzionabile alle diverse età del genere umano, come
lo è qualunque cosa si possa dire intorno alle diverse età dell’individuo. E
infatti del secol nostro non è proprio altro che il desiderio (eternamente inseparabile dall’uomo anche il più inetto, e debole, e inattivo e
non curante; per cagione dell’amor proprio che spinge alla felicità, la qual
mai non s’ottiene) e il lasciar fare.
(7.
Agosto. 1822.)
Ho
mostrato altrove che quasi tutte le principali scoperte che servono alla vita
civile sono state opera del caso, e tiratone le sue conseguenze. Voglio ora
spiegare e confermar la cosa con un esempio. L’arte di fare il vetro, anzi l’idea
di farlo, e la pura cognizione di poterlo fare (la qual arte è antichissima), è
egli credibile che sia mai potuta venire [2603]all’uomo per via di
ragionamento? Cavar dalle ceneri, e altre materie la cui specie esteriore è toto
coelo distante dalla forma e qualità del vetro (v. l’Arte Vetraria d’Antonio
Neri) un corpo traslucido, fusibile, configurabile a piacimento ec. ec. può mai
essere stato a principio insegnato da altro che da uno o più semplicissimi e
assolutissimi casi? Ora quanta parte abbia l’uso del vetro nell’uso della vita
e delle comodità civili, com’esso appartenga al numero dei generi necessari,
come abbia servito alle scienze, quante immense e infinite scoperte si sieno
fatte in ogni genere per mezzo de’ vetri ridotti a lenti ec. ec. ec., quanto
debbano al vetro l’Astronomia, la Notomia, la Nautica (tanto giovata e promossa
dalla scoperta dei satelliti di Giove fatta col telescopio ec.), tutte queste
cose mi basta accennarle. Ma le accenno affinchè si veda che quando anche le
successive scoperte, perfezionamenti ec. fatti, acquistati ec. intorno al
vetro, o per mezzo del vetro ec. non sieno stati casuali ma pensati (sebbene l’invenzione
dell’occhiale e del Cannocchiale si dice che fosse a caso): contuttociò si
debbono [2604]tutti, esattamente parlando, riconoscere per casuali,
essendo casuale la loro origine, cioè l’invenzione del vetro, senza la quale
niente del sopraddetto avrebbe avuto luogo. E però tutta quella parte (non
piccola) del sapere, dei comodi, della civiltà umana che ha dipendenza e
principio ec. dall’invenzione del vetro, e che senza questa non si sarebbe
conseguita, è realmente casuale, e per puro caso acquistata.
E che
queste ed altre simili innumerevoli scoperte sieno state veri casi, si può
arguire anche dal vedere che moltissimi popoli composti di esseri che per
natura, ingegno naturale, ec. erano e sono in tutto come noi, non essendosi
dati presso loro, i casi che si son dati presso noi, mancavano o mancano
affatto di queste o quelle invenzioni e di tutti i progressi dello spirito
umano che ne son derivati: e ciò quando anche detti popoli fossero in molta
società, ed avessero fatto molte altre scoperte, quali erano p.e. in America i
Messicani, popolo in gran parte civile, che non per tanto mancava appunto del
vetro.
[2605]Di più osservo che quantunque la
Chimica abbia fatto oggidì tanti progressi, e sia così dichiarata e distinta ne’
suoi principii, in maniera da parere ch’ella potesse e dovesse far grandi
scoperte, non più attribuibili al caso, ma solo al ragionamento; niuna mai ne
ha fatta che abbia di grandissima lunga l’importanza e l’influenza di quelle
che ci son venute dagli antichi, fatte in tempi d’ignoranza, e senza principii,
o con pochissimi e indigesti e mal intesi principii delle analoghe scienze (la
scoperta della polvere, del vetro ec.) Tutto quel ch’ha fatto è stato di
perfezionar le antiche, o di farne delle analoghe (come quella della polvere
fulminante) che non si sarebbero fatte se le antiche non fossero state già
conosciute. E quel che dico della Chimica dico delle altre scienze. Voglio
inferire che quelle principali scoperte che o subito, o col perfezionamento,
accrescimento, applicazione ch’hanno poi subìto, decisero e decidono,
cagionarono e cagionano in gran parte i progressi dello spirito umano,
originariamente non sono effetti della scienza [2606]nè del discorso, ma
del puro caso, essendo state fatte ne’ tempi d’ignoranza, e non sapendosene far
di gran lunga delle simili colla maggior possibile scienza. E che per tanto
tutta quella parte del sapere e della civiltà, tutto quel preteso
perfezionamento dell’uomo e della società che dipende in qualunque modo dalle
predette scoperte (la qual parte è grandissima anzi massima), non è stato nè
preordinato nè prevoluto dalla natura, perchè quegli che non ha preordinato nè
prevoluto le cause e le prime indispensabili origini (le quali, come dico, sono
state assolutamente accidentali), non può avere ordinato nè voluto gli effetti.
Quello
che ho detto del vetro, si dee dire di mille e mille altre importantissime
invenzioni, che senza una benchè menoma notizia e traccia ec. che però il solo
caso ha potuto somministrare, non si sarebbero mai potute fare, e però son
tutte casuali, per applicate, accresciute, perfezionate che sieno state in
seguito, e quando anche non si possano più riconoscere da quel che furono [2607]a
principio, non si possa neanche investigare la loro prima origine e forma e
natura, ec. ec.
(10.
Agosto. 1822.)
Così
tosto come il bambino è nato, convien che la madre che in quel punto lo mette
al mondo, lo consoli, accheti il suo pianto, e gli alleggerisca il peso di
quell’esistenza che gli dà. E l’uno de’ principali uffizi de’ buoni genitori
nella fanciullezza e nella prima gioventù de’ loro figliuoli, si è quello di
consolarli, d’incoraggiarli alla vita; perciocchè i dolori e i mali e le
passioni riescono in quell’età molto più gravi, che non a quelli che per lunga
esperienza, o solamente per esser più lungo tempo vissuti, sono assuefatti a
patire. E in verità conviene che il buon padre e la buona madre studiandosi di
racconsolare i loro figliuoli, emendino alla meglio, ed alleggeriscano il danno
che loro hanno fatto col procrearli. Per Dio! perchè dunque nasce l’uomo? e
perchè genera? per poi racconsolar quelli che ha generati del medesimo essere
stati generati?
[2608]Si può scrivere in italiano senza
scrivere in maniera italiana, laddove non si può quasi scrivere in francese che
non si scriva alla maniera francese. E si può scrivere e parlare in italiano e
non all’italiana: scrivere un italiano non italiano ec.
Sallustio,
Catil. c.23. Maria montesque polliceri. Non si trova, ch’io sappia,
questo proverbio, oggi volgarissimo in Italia, se non in questo scrittore
studiosissimo delle voci e maniere antiche, e che per conseguenza bene spesso
declina alle voci e maniere popolari, come sempre accade agli scrittori
studiosi dell’antichità della lingua, della quale antichità principal
conservatrice è la plebe.
La
nazione spagnuola poetichissima per natura e per clima fra tutte l’Europee (non
agguagliata in ciò che dall’Italia e dalla Grecia), e fornita di lingua
poetichissima fra le lingue perfette (non inferiore in detta qualità se
non all’italiana, e non agguagliata di gran lunga da nessun’altra) non ha mai
prodotto un poeta nè un poema che sia o sia stato di celebrità veramente [2609]europea.
Tanto prevagliono le istituzioni politiche alle qualità naturali. †Hmisu gŒr t’ Žret°w ŽpoaÛnutai doælvn ·mar (Homer.). E questa osservazione
può molto servire a quelli che sostengono la maggiore influenza del governo
rispetto al clima.
L’immenso
francesismo che inonda i costumi e la letteratura e la lingua degl’italiani e
degli altri europei, non è bevuto se non dai libri francesi, e dall’influenza
delle loro mode, e coll’andarli a trovare in casa loro, il che per quanto sia
frequente, non può mai esser gran cosa. Laddove Roma e l’Italia da’ tempi del
secondo Scipione in poi, e massime sotto i primi imperatori, era piena di greci
(greci proprii, o nativi d’altri paesi grecizzati); n’eran piene le case de’
nobili, dove i greci erano chiamati e ricevuti e collocati stabilmente in ogni
genere di uffici, da quei della cucina, fino a quello di maestro di filosofia
ec. ec. (V. Luciano perÜ tÇn ¤pÜ misJÒ sunñntvn, [2610]e l’epig. di
Marziale del graeculus esuriens ec. ec.); n’eran pieni i palazzi e gli
offici pubblici: oltre che tutti i ricchi mandavano i figli a studiare in
Grecia, e questi poi divenivano i principali in Roma e in Italia, nelle
cariche, nel foro ec. Quindi si può stimar quale e quanto dovesse necessariamente
essere il grecismo de’ costumi, e letteratura, e quindi della lingua in Italia
a quei tempi. Aggiunto che anche le donne avevano a sapere il greco, lo studio
che tutti più o meno facevano de’ loro libri, e il piacere che ne prendevano, e
le biblioteche che ne componevano ec. ec.
(18.
Agosto. Domenica. 1822.)
Dicasi
quel che si vuole. Non si può esser grandi se non pensando e operando contro
ragione, e in quanto si pensa e opera contro ragione, e avendo la forza di
vincere la propria riflessione, o di lasciarla superare dall’entusiasmo, che
sempre e in qualunque caso trova in essa un ostacolo, e un nemico mortale, e
una virtù estinguitrice, e raffreddatrice.
[2611]Nessuna cosa è vergognosa per l’uomo
di spirito nè capace di farlo vergognare, e provare il dispiacevole sentimento
di questa passione, se non solamente il vergognarsi e l’arrossire.
(22.
Agosto. 1822.)
Non
basta che lo scrittore sia padrone del proprio stile. Bisogna che il suo stile
sia padrone delle cose: e in ciò consiste la perfezion dell’arte, e la somma
qualità dell’artefice. Alcuni de’ pochissimi che meritano nell’Italia moderna
il nome di scrittori (anzi tutti questi pochissimi), danno a vedere di essere
padroni dello stile: vale a dir che il loro stile è fermo, uguale, non
traballante, non sempre sull’orlo di precipizi, non incerto, non legato e rétréci,
come quello di tutti gli altri nostri moderni, francesisti o no, ma libero e
sciolto e facile, e che si sa spandere e distendere e dispiegare e scorrere,
sicuro di non dir quello che lo scrittore non vuole intendere, sicuro di non
dir nulla in quel modo che lo scrittore non lo vuol dire, sicuro di non dare in
un altro stile, di non cadere in una qualità che lo scrittore voglia evitare;
procede a piè saldo senza inciampare nè dubitare di se stesso, non va a
trabalzoni, ora in cielo ora in terra, or qua or là, ec. Tutte queste qualità
nel loro stile si trovano, e si dimostrano, cioè si fanno sentire al lettore.
Questi tali son padroni del loro stile. Ma il loro stile non è padrone delle
cose, vale [2612]a dir che lo scrittore non è padrone di dir nel suo
stile tutto ciò che vuole, o che gli bisogna dire, o di dirlo pienamente e
perfettamente: e anche questo si fa sentire al lettore. Perciocchè spessissimo
occorrendo loro molte cose che farebbero all’argomento, al tempo, ec. che
sarebbero utili o necessarie in proposito, e ch’essi desidererebbero dire, e
concepiscono perfettamente, e forse anche originalmente, e che darebbero luogo
a pensieri notabili e belli; essi scrittori, ben conoscendo questo, tuttavia le
fuggono, o le toccano di fianco, e di traverso, e se ne spacciano pel generale,
o ne dicono sola una parte, sapendo ben che tralasciano l’altra, e che sarebbe
bene il dirla, o in somma non confidano o disperano di poterle dire o dirle
pienamente nel loro stile. La qual cosa non è mai accaduta ai veri grandi
scrittori, ed è mortifera alla letteratura. E per ispecificare; i detti
scrittori sono e si mostrano sicuri di non dare nel francese (cioè in quel
cattivo italiano che è proprio del nostro tempo, e quindi naturale anche a
loro, anzi solo naturale), ma non sono nè si mostrano sicuri di [2613]poter
dire nel buono italiano tutto quello che loro occorra; come lo erano i nostri
antichi. Anzi lasciano ottimamente sentire, che molte cose quasi necessarie, e
delle quali si compiacerebbero se le avessero potuto e saputo dire nel buono
italiano, e la cui mancanza si sente, e che molte volte sono anche notissime a
tutti in questo secolo, essi le tralasciano avvertitamente, e le dissimulano,
almeno da qualche necessaria parte, e se ne mostrano o ignoranti, o poco
istruiti, o di non averle concepite, quando pur l’hanno fatto anche più degli
altri, e che in somma non ardiscono dirle per timore di offendere il buono
italiano e il proprio stile. Il qual timore e la quale impotenza assicurerebbe
alla letteratura e filosofia italiana di non dar mai più un passo avanti, e di
non dir mai più cosa nuova, come pur troppo si verifica nel fatto.
Lo
scriver francese tutto staccato, dove il periodo non è mai legato col
precedente (anzi è vizio la collegazione e congiuntura de’ periodi, come [2614]nelle
altre lingue è virtù), il cui stile non si dispiega mai, e non sa nè può nè dee
mai prendere quell’andamento piano, modesto disinvoltamente, unito e fluido che
è naturale al discorso umano, anche parlando, e proprio di tutte le altre
nazioni; questo tale scrivere, dico io, fuor del quale i francesi non hanno
altro, è una specie di Gnomologia. E queste qualità gli convengono necessariamente,
posto quell’avventato del suo stile, di cui non sanno fare a meno i francesi, e
senza cui non trovano degno alcun libro di esser letto. Per la quale
avventatezza lo scrittore e il lettore hanno di necessità ogni momento di
riprender fiato. E par proprio così, che lo scrittore parli con quanto ha nel
polmone, e perciò gli convenga spezzare il suo dire, e fare i periodi corti,
per fermarsi a respirare. (28. Agosto 1822.). Effettivamente il tuono di
qualunque scrittura francese fin dalla prima sillaba è quello di uno che parla
ad alta voce. Tale riesce almeno per chi non [2615]è francese, e per chi
non è assuefatto durante tutta la sua vita a letture francesi ec. Quel tuono
moderato del discorso naturale, col qual tuono gli antichi aprivano anche le
loro Orazioni, e fra queste, anche [le] più veementi e passionate, è una
qualità eterogenea anche alle lettere familiari de’ francesi.
In
questa, come in molte altre qualità, lo scriver francese si rassomiglia allo
stile orientale, il quale anch’esso per le medesime ragioni, e per loro
necessaria conseguenza è tutto spezzato, come si vede ne’ libri poetici e
sapienziali della scrittura. La lingua ebraica manca quasi affatto di
congiunzioni d’ogni sorta, e non può a meno di passar da un periodo all’altro
senza legame, se pure vuol servire alla varietà, perchè altrimenti tutti i suoi
periodi comincerebbero, come moltissimi cominciano, dall’uau. Ma ciò può
esser virtù per gli orientali, essendo difetto ne’ francesi: perchè a quelli è
naturale, a questi no. Neppur noi italiani, neppur gli spagnuoli hanno quella
tanta soprabbondanza di sentimento vitale, e quella tanta veemenza e rapidità
naturale e abituale e fisica d’immaginazione che hanno gli orientali; a cui
perciò riesce insoffribilmente languido e lento quell’andamento dello scrivere
che per noi è moderato, e quelle immagini ec. che per noi tengono [2616]il
giusto mezzo; e a cui riesce moderatissimo quel che riesce eccessivo per noi.
Ma se neppur gl’italiani e neppur gli spagnuoli hanno la forza abituale e
fisica della vita interna che hanno gli orientall, molto meno ci arriveranno i
francesi. E in verità il modo del loro scrivere è per loro abito, non già
natura, come si può vedere anche ne’ loro scrittori antichi.
(28.
Agosto. 1822.)
La niuna
società dei letterati tedeschi, e la loro vita ritirata e indefessamente
studiosa e di gabinetto, non solo rende le loro opinioni e i loro pensieri
indipendenti dagli uomini (o dalle opinioni altrui), ma anche dalle cose.
Laonde le loro teorie, i loro sistemi, le loro filosofie, sono per la più parte
(a qualunque genere spettino: politico, letterario, metafisico, morale, ec. ed
anche fisico) poemi della ragione. In fatti delle grandi e vere e
sode scoperte sulla natura e la teoria dell’uomo, de’ governi ec. ec. la
fisica generale ec. n’han fatto gl’inglesi (come Bacone, Newton, Locke), i
francesi (come Rousseau, Cabanis) e anche qualche italiano (come Galilei,
Filangieri ec.), ma i tedeschi nessuna, benchè tutto quello che i loro [2617]filosofi
scrivono, sia, per qualche conto, nuovo, e benchè i tedeschi abbondino d’originalità
in ogni genere sopra ogni altra nazion letterata (ma non sanno essere originali
se non sognando): e benchè la nazion tedesca abbia tanti metafisici, computando
anche i soli moderni, quanti non ne hanno le altre nazioni tutte insieme,
computando i moderni e gli antichi: e bench’ella sia profondissima d’intelletto
per natura, e per abito. Di più i letterati tedeschi hanno appunto in sommo
grado quello che si richiede al filosofo per non esser sognatore, e per non
discostarsi dal vero andandone in cerca: il che i filosofi delle altre nazioni
non sogliono avere. Vale a dir che i tedeschi hanno un sapere immenso, una
cognizione quasi (s’egli è possibile) intera e perfetta di tutte le cose che
sono e che furono. Ed essendo essi così padroni della realtà per forza del loro
studio, e gli altri letterati essendo così poco padroni de’ fatti, è veramente
maraviglioso, come certissimo, che [2618]laddove l’altre nazioni oramai
tutte filosofano anche poetando, i tedeschi poetano filosofando. E si può dir
con verità che il menomo e il più superficiale de’ filosofi francesi (così
leggieri e volages per natura e per abito) conosce meglio l’uomo
effettivo e la realtà delle cose, di quel che faccia il maggiore e il più
profondo de’ filosofi tedeschi (nazione sì riflessiva). Anzi la stessa
profondità nuoce loro: e il filosofo tedesco tanto più s’allontana dal vero,
quanto più si profonda o s’inalza; all’opposto di ciò che interviene a tutti
gli altri. (29. Agosto. 1822.). I tedeschi incontrano molto meglio e molto più
spesso nel vero quando scherzano, o quando parlano con una certa leggerezza e
guardando le cose in superficie, che quando ragionano: e questo o quel romanzo
di Wieland contiene un maggior numero di verità solide, o nuove, o nuovamente
dedotte, o nuovamente considerate, sviluppate ed espresse, anche di genere
astratto, che non ne contiene la Critica della ragione di Kant.
[2619]È curioso l’osservare come l’universalità
sia passata dalla lingua greca ch’è la più ricca, vasta, varia, libera, ardita,
espressiva, potente, naturale di tutte le lingue colte, alla francese ch’è la
più povera, limitata, uniforme, schiava, timida, languida, inefficace,
artifiziale delle medesime. E più curioso che l’una e l’altra lingua abbiano
servito all’universalità appunto perchè possedevano in sommo grado le predette
qualità, che sono contrarie direttamente fra loro. E pur tant’è, ed anche
oggidì dalla lingua francese in fuori, non v’è, e mancando la lingua francese,
non vi sarebbe lingua meglio adattata all’universalità della greca, ancorchè
morta, (2. Settem. 1822.) ed ancorch’ella sia precisamente l’estremo opposto alla
lingua francese.
Alla
p.1271. Io tengo per certissimo che l’invenzione dell’alfabeto sia stata una al
mondo, voglio dir che la scrittura alfabetica non sia stata inventata in più
luoghi (o al medesimo tempo o in diversi tempi) ma in un solo, e da [2620]questo
sia passata la cognizione e l’uso della detta scrittura di mano in mano a tutte
le nazioni che scrivono alfabeticamente. Non è presumibile che un’invenzione ch’è
un miracolo dello spirito umano (o forse ha la sua origine dal caso come il più
delle invenzioni strepitose) sia stata ripetuta da molti, cioè fatta di pianta
da molti spiriti. E la storia conferma ciò ch’io dico. 1. Le nazioni che non
hanno, o non hanno avuto commercio con alcun’altra, o con alcun’altra
letterata, non hanno avuto o non hanno alfabeto. Cento altre nostre cognizioni
mirabili si son trovate sussistenti presso questo o quel popolo nuovamente
scoperto: l’alfabeto (primo mezzo di vera civilizzazione) non mai. Il Messico
avea governo, politica, nobiltà, gerarchie, premi militari, anzi Ordini
cavallereschi rimuneratorii del merito, calendario, architettura, idraulica,
cento belle arti manuali, navigazione, ec. ec. ed anche storie e libri
geroglifici, ma non alfabeto. La China ha inventato polvere, bussola, e fino la
stampa; ha infiniti libri, ha prodotto un Confucio, [2621]ha
letteratura, ha gran numero di letterati, fino a farne più classi distinte, con
graduazioni, lauree, studi pubblici ec. ec. ma non ha alfabeto (benchè i libri
cinesi si vendano tutto dì per le strade della China al minutissimo popolo, e
anche ai fanciulli, e la professione del libraio sia delle più ordinarie e
numerose). 2. Si sa espressamente per tradizione che gli alfabeti son passati
da paese a paese. La Grecia narra d’avere avuto il suo dalla Fenicia; così ec.
ec. ec. 3. Grandissima parte degli alfabeti dimostra l’unità dell’origine
guardandone sottilmente o il materiale, o i nomi delle lettere (come quelli del
greco paragonati agli ebraici ec. ec.). E questo, non ostante che le nazioni
siano disparatissime, e niun commercio sia mai stato fra talune di esse, come
tra gli ebrei e i latini antichi che ricevettero l’alfabeto (forse) dalla
Grecia, che l’ebbe dalla Fenicia, che l’ebbe da’ samaritani o viceversa ec. ec.
e così l’alfabeto latino vien pure a ravvicinarsi sensibilmente all’ebraico. [2622]4.
Se alcuni alfabeti non dimostrano affatto alcuna somiglianza con verun altro,
nè per figura nè per nomi ec. ciò non conclude in contrario. Ma vuol dire, o
che l’antichità tolse loro, o agli alfabeti nostri ogni vestigio della loro
primissima origine; o piuttosto che quelle tali nazioni ricevendo pur di fuori,
come le altre, l’uso della scrittura alfabetica, o non adottarono però l’alfabeto
straniero, o adottatolo lo vennero appoco [appoco] perfezionando, cioè
accomodando alla loro lingua, finchè lo mutarono affatto: o vero tutto in un
tratto gliene sostituirono un altro nuovo e proprio loro, come fu dell’alfabeto
armeno, sostituito al greco ch’era stato usato fino allora dalla nazione, la
quale col mezzo di esso aveva imparato a scrivere, e conosciuto l’uso dell’alfabeto,
del che vedi p.2012.
(2.
Sett. 1822.)
Le
nazioni civili dell’Asia, dopo la conquista d’Alessandro erano veramente dÛglvttoi cioè parlavano e scrivevano la lingua greca, non come propria, ma come
lingua colta, e nota universalmente, [2623]e letta da per tutto (e così
deve intendersi il luogo di Cic. pro Archia), e come noi o gli svedesi o
i russi o gli olandesi scrivono il francese: noi (più di rado) per cagione
della sua universalità; quegli altri, come anche i polacchi, e al tempo di
Federico i prussiani, per non aver lingua che sia o fosse ancora abbastanza
capace ec. Nè si dee credere che le lingue patrie di quelle nazioni, fossero
spente, neanche diradate dall’uso, e sostituita loro la greca nella
conversazione quotidiana, come accadde della latina, nelle nazioni latinizzate.
Restano anche oggi le lingue asiatiche antiche, o dialetti derivati da quelle,
o composti di quelle e d’altre forestiere, come dell’arabica ec. E v. ciò che s’è
detto altrove di Giuseppe Ebreo, e Porfirio Vit. Plotini c.17. nel Fabric. B.
G. t.4. p.119-120. (e quivi la nota) katŒ m¢n p‹trvn di‹lekton. Di questi dÛglvttoi che scrivevano in lingua non loro, e pure scrivevano anche egregiamente,
fu Luciano da Samosata, v. le sue opp., dove fa cenno della sua lingua patria,
e tali altri di que’ tempi; anzi tutti gli Asiatici [2624]che scrissero
in greco (eccetto quelli delle Colonie, come Arriano, Dionigi Alicarnasseo
ec.), alcuni Galli non Marsigliesi nè d’altra colonia greco-gallica (come
Favorino), alcuni Africani, massime Egiziani (perchè nel resto dell’Affrica,
esclusa la Cirenaica, trionfò la lingua latina, ma come lingua de’ letterati e
del governo ec. non come popolare, per quanto sembra), alcuni italiani (come M.
Aurelio) ec. ec.
Questo
appunto fu quello che la lingua latina non ottenne mai, o quasi mai, cioè d’esser
bene intesa, parlata, letta, scritta da quelli che non la usavano
quotidianamente come propria, e così si deve intendere il citato luogo di Cic. latina
suis finibus, exiguis sane, continentur. Pur non erano tanto ristretti
neppur allora, quanto all’uso quotidiano, essendo già stabilito il latino in
Affrica ec.
Visto
non è altro che una contrazione del participio visitus (come quisto
di quesitus in ispagnuolo), ignoto agli scrittori latini.
Per
la Dissertazione dell’antico volgare latino vedi fra gli altri il Pontedera,
Antiquitatum latinarum graecarumque enarrationes atque emendationes. Patav.
Manfrè, typis Seminarii, 1740. 4to epist. 1.2. principalmente.
Ho detto
in più luoghi che l’opinione è Signora degli individui e delle nazioni, che [2625]tali
sono e furono e saranno quelli e queste, quali sono o furono o saranno le loro
opinioni e persuasioni e principii. La cosa è naturalissima, e conseguenza
necessaria dell’amor proprio in un essere ragionante. Perocchè l’amor proprio
porta l’uomo a sceglier sempre quello che se gli rappresenta come suo maggior
bene. Ma qual cosa se gli rappresenti come tale, ciò dipende dall’opinione, e
così la libertà dell’uomo è sempre determinata dall’intelletto. Quindi sebben l’uomo
alle volte si scosta da’ suoi principii, considerando per allora come suo
maggiore bene quello che pur è contrario ai medesimi, nondimeno è naturale che
la massima parte delle operazioni, desiderii, costumi ec. sì degl’individui sì
de’ popoli sia conforme ai principii tenuti dal loro intelletto stabilmente e
abitualmente.
Ho detto
altrove che le antiche nazioni si stimavano ciascuna di natura diversa dalle
altre, [2626]non consideravano queste come loro simili, e quindi non
attribuivano loro nessun diritto, nè si stimavano obbligate ad esercitar cogli
esteri la giustizia distributiva ec. se non in certi casi, convenuti
generalmente per necessità, come dire l’osservazion de’ trattati, l’inviolabilità
degli araldi ec. cose tutte, la ragion delle quali appoggiavano favolosamente
alla religione, come quelle che da una parte erano necessarie volendo vivere in
società, dall’altra non avevano alcun fondamento nella pretesa legge naturale.
Quindi gli araldi amici e diletti di Giove presso Omero ec. quindi il violare i
trattati era farsi nemici gli Dei (v. Senof. in Agesilao) ec. Ho citato l’Epitafios
attribuito a Demostene per provare che questa falsa, ma naturale idea della
superiorità loro ec. ec. sulle altre nazioni, le confermavano [2627]le
nazioni antiche, e poi le fondavano sulle favole, e sulle storie da loro
inventate, tradizioni ec. dando così a questo inganno una ragione, e una forza
di massima e di principio. Anche più notabile in questo proposito è quel che si
legge nel Panegirico d’Isocrate verso il principio, dove fa gli Ateniesi
superiori per natura ed origine a tutti gli uomini. V. anche l’oraz. della
Pace, dove paragona gli Ateniesi coi TriballoÛ, e coi LeukanoÛ. Similmente il popolo Ebreo chiamavasi il popolo eletto, e quindi si
poneva senza paragone alcuno al di sopra di tutti gli altri popoli sì per
nobiltà, sì per merito, sì per diritti ec. ec. e spogliava gli altri del loro
ec. ec.
Pausa,
posa, posare (per
riposare), riposo, riposare (reposare) e simili vengono indubitatamente [2628]dapaæv-paæsv-paèsiw ec.
Isocrate
nel Panegirico p.133. cioè prima del mezzo, (quando entra a parlare delle due
guerre Persiane) lodando i costumi e gl’istituti di coloro che ressero Atene e
Sparta innanzi al tempo d’esse guerre, dice, àdia m¢n sth tŒw ¥autÇn pñleiw ²goæmenoi, koin¯n d¢ patrÛda t¯n ƒE ll‹da nomÛzontew eänai.
Isocrate
nel Panegirico p.150, cioè poco dopo il mezzo, raccontando i mali fatti da’
fautori de’ Lacedemoni (LakvnÛzontew) alle loro città, dice dei
medesimi: eÞw toèto dƒ Èmñthtow ‘pantaw ²mw kat¡sthsan, Ëste prò toè m¢n diŽ t¯n paroèsan eédamonÛan, k›n taÝw mikraÝw ŽtuxÛaiw, polloçw §kastow ²mÇn (parla dei privati cioè di ciascun
cittadino) eÞxe toçw sumpaJ®sontaw: ¤pÜ d¢ t°w toætvn Žrx°w, diŒ tò pl°Jow tÇn nÞkeÛvn kakÇn, ¤paus‹meJa Žll®louw ¤leoèntew. OédenÜ gŒr tosaæthn [2629]sxol¯n par¡lipon, ËsJƒ ¥t¡rÄ sunaxJesJ°nai. E veramente l’abito della propria
sventura rende l’uomo crudele Èmòn, come dice costui. (30. Sett.
1822.). Vedi la p. seg. pensiero primo.
Da
quello che altrove ho detto e provato, che il piacere non è mai presente, ma
sempre solamente futuro, segue che propriamente parlando, il piacere è un ente
(o una qualità) di ragione, e immaginario.
A ciò
che ho detto altrove delle voci ermo, eremo, romito, hermite, hermitage,
hermita ec. tutte fatte dal greco ¦rhmow, aggiungi lo spagnuolo ermo,
ed ermar (con ermador ec.) che significa desolare, vastare,
appunto come il greco ¤rhmñv. (3. Ottobre. 1822.). Queste voci
e simili sono tutte poetiche per l’infinità o vastità dell’idea ec. ec. Così la
deserta notte, e tali immagini di solitudine, silenzio ec.
Le
sensazioni o fisiche o massimamente morali che l’uomo può provare, sono, niuna
di vero piacere, ma indifferenti o dolorose. Quanto alle indifferenti la
sensibilità non giova nulla. Restano solo le dolorose. Quindi la sensibilità,
benchè [2630]assolutamente considerata sia disposta indifferentemente a
sentire ogni sorta di sensazioni, in sostanza però non viene a esser altro che
una maggior capacità di dolore. Quindi è che necessariamente l’uomo sensibile,
sentendo più vivamente degli altri, e quel che l’uomo può vivamente sentire in
sua vita non essendo altro che dolore, dev’esser più infelice degli altri. Egli
più capace d’infelicità, e questa capacità non può mancar d’esser empiuta nell’uomo.
Ho detto
altrove che il timore è la più egoistica delle passioni. Quindi ciò ch’è stato
osservato, che in tempo di pesti, o di pubblici infortuni, dove ciascun teme
per se medesimo, i pericoli e le morti de’ nostri più cari, non ci producono
alcuno o quasi alcun sentimento.
(5.
Ottobre. 1822.)
Ho detto
che gli scrittori greci hanno ciascuno un vocabolarietto a parte, dal quale [2631]non
escono mai o quasi mai, e nella totalità del quale ciascun d’essi si distingue
benissimo da ciascun altro, e ch’esso vocabolario, massime ne’ più antichi è
molto ristretto, e che la lingua greca ricchissima in genere, non è più che
tanto ricca in veruno scrittore individuo; e tanto meno è ricca quanto lo
scrittore è più antico e classico, e quindi i più antichi e classici si
distinguono fra loro nelle parole e frasi più di quel che facciano parimente
fra loro i più moderni, che son più ricchi assai, ed abbracciano ciascuno una
maggior parte della lingua, onde debbono aver fra loro più di comune che gli
antichi non hanno fra loro medesimi, come che le parole e frasi di ciascuno
generalmente prese, sieno tutte ugualmente proprie della lingua.
Tutto
ciò si dee specialmente intendere [2632]delle radici, nelle quali gli
antichi greci sono ristrettissimi, ciascuno quanto a se, e notabilmente diversi
gli uni dagli altri, nella totalità del Vocabolario delle medesime. Laddove i
moderni ne sono incomparabilmente più ricchi (come Luciano, Longino, ed anche
più i più sofistici e di peggior gusto, e i più pedanti; rispetto p.e. ad
Isocrate, Senofonte ec.), ed hanno in esse radici molto più di comune fra loro.
Ma quanto ai composti o derivati fatti da quelle radici che sono familiari a
ciascuno di loro, niuno scrittor greco è povero, nè scarso, nè troppo uniforme.
Ma quando mai, sarebbero più poveri in questa parte i più moderni, che i più
antichi. Certo sono più timidi e servili, ed attaccati all’esempio de’
precedenti, e parchi e ritenuti e guardinghi e cauti nella novità. La qual
novità quanto alle voci, non può consistere in greco se non se in nuovi
composti o derivati.
(5. Ott.
1822.)
[2633]Dalle suddette cose si può
conoscere che l’immensa ricchezza della lingua greca, non pregiudicava alla
facilità di scriverla, e quindi non s’opponeva alla sua universalità, non
essendo necessaria più che tanta ricchezza (o usata o conosciuta e posseduta)
non solo per iscrivere e parlar greco, ma eziandio per iscriverlo e parlarlo
egregiamente; e bastando poche radici per questo; poichè restavano liberi i
composti all’arbitrio dello scrittore, o quando anche non restassero liberi,
infiniti composti e derivati portava seco ciascuna radice, onde lo scrittore
pratico di poche radici veniva subito ad avere una lingua molto sufficiente a
tutti i suoi bisogni. Il che scemava infinitamente la difficoltà che si prova
nelle lingue, perchè un vocabolario sufficientissimo [2634]allo
scrittore o parlatore si riduceva sotto pochi elementi, e procedeva da pochi
principii ossia radici, e quindi era molto più facile ad impararlo ed
impratichirsene, che se esso senza essere niente maggiore, avesse contenuto tutta
la lingua, ma fosse proceduto da più numerose e diverse radici. Tutte queste
circostanze siccome quelle notate nel pensiero precedente non si trovavano
nella lingua latina, che meno ricca della greca, era però per la sua ricchezza
più difficile a scrivere e a parlare che la greca non fu, perchè la ricchezza
(ancorchè minore) della latina, bisognava averla tutta in contanti, a volere
scrivere e parlar latino, e massimamente a farlo bene. E l’orecchie latine
erano delicatissime come le francesi, circa il vero e [2635]proprio
andamento (e la purità) della loro lingua, che rispetto alla greca era
liberissimo, cioè sommamente vario, ed in gran parte ad arbitrio.
La
lingua greca ch’è la più antica delle colte ben conosciute, è anche fra tutte
le lingue colte la più capace di significar l’idee e gli oggetti più
propriamente moderni cioè i più difficili a significarsi e di supplire ai
bisogni d’espressioni, prodotti dall’ampiezza, varietà e profondità delle
nozioni moderne. E il fatto stesso lo dimostra, ricorrendosi tutto dì alla
lingua greca ec. come ho detto altrove.
Taæthw d¢ t°w ŽnvmalÛaw kaÜ t°w tarax°w aàtiñn ¤stin ôti t°n basileÛan, Ësper ßerosænhn, pantòw Žndròw eänai nomÛzonsin, ÷ (t. „e. ² basileÛa) tÇn ŽnJrvpÛnvn pragm‹tvn m¡gistñn ¤stin, kaÜ pleÛonow[2636]pronoÛaw (all. codd. pleÛothw) deñmenon. Isocr. pròwNikokl¡a p.37. cioè a meno di tre piccole pagine dal principio
dell'Oraz.
(10.
Ott. 1822
Non c’è
regola nè idea nè teoria di gusto universale ed eterno. Qual potreb’ella
essere, se non la natura? (e qual cosa è, o vero, essendo, si può immaginare e
intendere e concepire da noi, fuori della natura?) ma qual natura, se non l’umana?
Poichè le cose che cadono sotto la categoria del buon gusto o del cattivo
gusto, non sono considerate se non per rispetto all’uomo. Or non è ella cosa
manifestissima, che la natura dell’uomo si diversifica moltissimo
secondo i climi, secoli, costumi, assuefazioni, governi, opinioni, circostanze
fisiche, morali, politiche, ec. e queste, individuali, nazionali ec. ec.? Resta
dunque per tutta idea e teoria di gusto [2637]universale ed eterno, un
idea ed una teoria, che comprenda solamente, e si fondi, e si formi di quei
principii che, relativamente al gusto, si trovano esser comuni a tutti gli
uomini, e tenere alla primitiva e immutabile natura umana. Ma questi principii,
dico io che sono pochissimi, ed applicabilissimi, conformabilissimi, e fecondi
di numerosissime e diversissime conseguenze (siccome lo sono tutti i principii
naturali, e veramente elementari, perchè la natura è semplicissima, pochi
principii ha posto, e questi, infinitamente e diversissimamente e anche
contrariamente
[2]
modificabili): dal che segue che questa idea e questa teoria d’un gusto che sia
veramente universale ed eterno, si riduce a pochissime regole, ed è
infinitamente meno circoscritta e distinta di quel che comunemente si crede; e
lascia luogo a infiniti [2638]gusti diversissimi ed anche contrarii fra
loro (che noi riproviamo, e perchè ripugnano al gusto nostro o individuale o
nazionale, e questo forse momentaneo, li crediamo, al nostro solito, contrarii
all’universale ed eterno): anzi non solo lascia loro luogo, ma li produce, non
meno che quello ch’a noi pare il solo vero buon gusto ec.
Ma senza
alcun fallo gli uomini comunemente hanno questo difetto, e tutti generalmente
in ciò pecchiamo, che noi della nostra vita speriamo assai, ed il nostro tempo
largo misuriamo, e dello altrui per lo contrario sempre temiamo, e siamone
scarsi e solleciti, debole e breve reputandolo. Perocchè chi è quello che tanto
oltre sia, o che così vicino alla fossa abbia il piede, che non si faccia a
credere di dover quattro o sei anni poter [2639]campare, e che a ciò
ogni cosa opportuna non apparecchi? Veramente io credo che niuno ce ne abbia
fra noi; nè maraviglia sarebbe di ciò, se noi questa medesima speranza avessimo
similmente della altrui vecchiezza, che noi abbiamo della nostra, e non ci
facessimo beffe in altrui di quello che in noi medesimi approviamo. Casa,
Orazione seconda per la Lega. Lione (Venezia) appresso Bartolommeo Martin.
senza data di tempo. appiè del 3. tomo delle opere del Casa, Venez. Pasinelli
1752. p.41. Tre altre pagine mancano per la fine dell’Oraz.
Ho detto
altrove che gran parte delle voci che in poesia si chiamano eleganti, e si
tengono per poetiche, non sono tali, se non per esser fuori dell’uso comune e
familiare, nel quale già furono una volta (o furono certo nell’uso degli
scrittori in prosa); e conseguentemente per essere antiche rispetto [2640]alla
moderna lingua, benchè non sieno antiquate. E ciò principalmente cade nelle
voci (o frasi) che sono oggidì esclusivamente poetiche. Ho detto ancora
che per tal cagione, non potendo i primi poeti o prosatori di niuna lingua,
aver molte voci nè frasi antiche da usare ne’ loro scritti, e quindi mancando d’un’abbondantissima
fonte d’eleganza, è convenuto loro tenersi per lo più allo stile familiare,
come familiarissimo è il Petrarca ec., e sono stati incapaci dell’eleganza
Virgiliana.
Aggiungo
ora che in fatti la poesia, appresso quelle nazioni ch’hanno lingua
propriamente poetica, cioè distinta dalla prosaica (e ciò fu tra le antiche la
greca, e sono tra le moderne l’italiana e la tedesca, e un poco fors’anche la
spagnuola) è conservatrice [2641]dell’antichità della lingua, e quindi
della sua purità, le quali due qualità sono quasi il medesimo, se non che la
prima di queste due voci dice qualcosa di più. Dell’antichità, dico, è
conservatrice la lingua poetica, sì ne’ vocaboli, sì nelle frasi, sì nelle
forme, sì eziandio nelle inflessioni, o coniugazioni de’ verbi, e in altre
particolarità grammaticali. Nelle quali tutte essa conserva (o segue di tratto
in tratto a suo arbitrio) l’antico uso, stato comune ai primi prosatori, e
quindi sbandito dalle prose. Ed ha notato il Perticari nel Trattato degli
Scrittori del Trecento che in tanta corruzione ultimamente accaduta della
nostra lingua parlata e scritta, lo scriver poetico s’era pur conservato e si
conserva puro; il che fino a un certo segno, e massime ne’ versificatori [2642]che
non hanno molto preteso all’originalità (come gli arcadici, i frugoniani ec. a
differenza de’ Cesarottiani ec.) si trova esser verissimo. Così fu nella lingua
greca, che la poesia fu gran conservatrice delle parole, modi, frasi,
inflessioni, e regole e pratiche grammaticali antiche. Ond’ella ha una lingua
tutta diversa dalla sua contemporanea prosaica. E ciò accade (parlo del
conservar l’antichità e purità della lingua), accade, dico, proporzionatamente
anche nelle poesie che non hanno lingua appartata, come la francese, e forse l’inglese.
Se non altro, queste poesie sono sempre più pure dello scriver prosaico
appresso tali nazioni, rispetto alla lingua.
Mania,
smania, smaniare e
lo spagnuolo mania, e il francese manie, maniaque ec. dal greco manÛa, maÛnomai ec. cioè furor, furere ec. furore
frenesia ec.
[2643]L’amor della vita cresce quasi come
l’amor del danaio, e, com’esso, cresce in proporzione che dovrebbe scemare.
Perciocchè i giovani disprezzano e prodigano la vita loro, ch’è pur dolce, e di
cui molto avanza loro; e non temono la morte: e i vecchi la temono sommamente,
e sono gelosissimi della propria vita, ch’è miserabilissima, e che ad ogni modo
poco hanno a poter conservare. E così il giovane scialacqua il suo, come s’egli
avesse a morire fra pochi dì, e il vecchio accumula e conserva e risparmia come
s’avesse a provvedere a una lunghissima vita che gli restasse.
Cara spagn. cioè faccia, e così cera,
e chère nello stesso senso, vengono dal greco. V. Perticari Apol. di
Dante part.2. c.5. not.1. p.75.
È bello
a paragonare il luogo di Cicerone pro Archia da me recato altrove, sulla
ristrettezza geografica [2644]della lingua latina al suo tempo, col
luogo di Plutarco sulla sua immensa propagazione a tempo di Traiano, il qual
luogo è portato dal Perticari l. sop. cit. c.8. princip. p.88. (28. Ottob.
1822.). Vedi anche il med. Pertic. ib. p.89. e 92-94.
L’uomo
odia l’altro uomo per natura, e necessariamente, e quindi per natura esso, sì
come gli altri animali è disposto contro il sistema sociale. E siccome la
natura non si può mai vincere, perciò veggiamo che niuna repubblica, niuno
istituto e forma di governo, niuna legislazione, niun ordine, niun mezzo
morale, politico, filosofico, d’opinione, di forza, di circostanza qualunque,
di clima ec. è mai bastato nè basta nè mai basterà a fare che la società
cammini come si vorrebbe, e che le relazioni scambievoli degli uomini fra loro,
vadano secondo le regole di quelli che si chiamano diritti sociali, e doveri
dell’uomo verso l’uomo.
[2645]Se l’uomo esce fuori della naturale
puritade, allora pecca. Servando dunque la nostra condizione e virtù, bastiti o
uomo, lo naturale ornamento, e non mutare l’opera del tuo Creatore, perocchè
volerla mutare è un guastare. Vite de’ Santi Padri, parte 1. capitolo 9.
fine, p.25. e son degne d’esser vedute anche le cose precedenti a queste
parole. Le quali sono in bocca di Sant’Antonio, e nella sua Vita, il cui testo
originale greco è di S. Atanasio.
La
storia greca, romana ed ebrea contengono le reminiscenze delle idee acquistate
da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun nome, ciascun fatto delle dette
storie, e massime i principali e più noti ci richiamano idee quasi primitive
per noi, e sono in certo modo legati alla storia della vita, e della
fanciullezza massimamente, [2646]delle cognizioni, de’ pensieri di
ciascuno di noi. Quindi l’interesse che ispirano le dette storie, e loro parti,
e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere, come fu
osservato da Chateaubriand (Génie ec.); interesse che non può esserci mai
ispirato da verun’altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se
più importante delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie
nazionali. Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note;
perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi strette parenti di
ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo da queste tre
nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di argomenti storici
veramente propri d’epopea, di tragedia, ec. [2647]e all’interesse dei
detti argomenti, massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè
con veruna industria, cavando argomenti o dall’immaginazione, o dalle altre
storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie, quella della
guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni, anzi più
delle altre tre, perchè i poemi d’Omero e di Virgilio, l’hanno resa più nota e
familiare a ciascuno, che verun’altra, e perch’ella a cagione dei detti poemi,
delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra fanciullezza, che
non sono la storia greca e romana, e neanche l’ebrea. Tutto ciò è relativo, e l’interesse
delle dette storie non deriva particolarmente dalle loro proprie e intrinseche
qualità, ma dalla circostanza estrinseca dell’essere le medesime familiari [2648]a
ciascuno fin dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si
potrebbe togliere, dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si
confonderebbe e agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti
storici, o sarebbe anche superato.
La formation d’une langue est l’oeuvre des grands
écrivains; l’Italie en compte trop peu: plus de la moitié de l’esprit et du
coeur humain n’a pas encore passé sous la plume des Italiens, et par conséquent
dans leur langue. Lettres sur l’Italie par Dupaty en 1785. let.41. Tome 1. à
Gênes 1810, p.185. Non
solo dello spirito e del cuore umano, ma neppur la metà delle cognizioni che
sopra queste materie s’avevano al tempo di Dupaty, e molto meno di quelle che s’hanno
presentemente.
[2649]Sopra i dialetti della lingua
latina. Estratto da un articolo: Del Dialetto Veneto: Lettera di un
Viaggiatore oltramontano (inglese), che sta nelle Effemeridi letterarie
di Roma t.2. p.58-70. (Genn. 1821.). = L’antica lingua di questi popoli
(Veneti) traspariva nel loro Latino, come è agevole di riconoscere dalle
inscrizioni raccolte dal Maffei: ed è probabile che gli originarj dialetti
delle diverse nazioni che si stabilirono in Italia, sieno una rimota cagione
della varietà de’ linguaggi che vi si parlano presentemente.
[2650]Ma checchè sia pure degli elementi
della lingua loro (de’ primi Veneti), è cosa notoria ch’essi ne avevano una a
se, comunque fosse composta; la quale rimase in seguito, come le altre di tutti
gl’Italiani aborigeni, assorta nel Latino; e molte prove si potrebbero addurre
per dimostrare che una tal lingua (come accadde di quella dei Galli ec.) tinse
de’ suoi propri colori la massa colla quale si confuse (la lingua latina): e le
Iscrizioni lapidarie raccolte dal Maffei nel territorio Veneto fanno vedere
quella stessa provincialità antica (benchè di un genere diverso) che
caratterizza quelle delle Colonie Galliche; e vi si riconosce lo stesso
scambiamento di lettere che è frequentissimo nel dialetto Veneto che ora si
parla. Cicerone nelle sue Lettere familiari fa menzione [2651]di certi
termini che erano in voga in queste provincie (Venete), e sconosciuti a Roma.
Tito Livio fu accusato di patavinità o padovanismo (checchè si debba intendere
sotto questa espressione): fu anche detto di Catullo d’aver egli introdotte
certe nuove forme di dire nella Lingua Latina: e si potrebbero addurre alcune
prove di questi suoi Veronismi. Ne sia una il nome di Pronus con
cui egli chiama un torrente: termine che io non so che sia usato da alcun
altro. Nè si supponga che questo non sia che uno degli ordinarj ed adattati
epiteti sostituiti al sostantivo. Giacchè Pronio nella provincia di
Verona ritiene anche presentemente il significato di Torrente. Ho già fatto
sentire l’opinione in cui sono che quello ch’io cerco di dimostrare [2652]relativamente
agli Stati Veneti (l’antichissima origine di quegli elementi e proprietà del
suo dialetto che non vengono dal latino, e non sono del comune Italiano; e la
loro derivazione dalla lingua veneta anteriore al latinizzamento di quella
provincia, qualunque fosse essa lingua), possa probabilmente applicarsi all’Italia
tutta. In conferma della qual opinione giova il ricordare che l’Algarotti cita,
non so dove, una lettera di Varo a Virgilio, nella quale commentando un certo
epigramma, critica la parola putus asseverando non essere Latina.
Presentemente il vocabolo Putto, quantunque naturalizzato nell’Italiano,
credo però che sia usato familiarmente dai soli Mantovani, e ne’ paesi
confinanti, e che non sarebbe inteso dal volgo di Toscana. = p.62-63.
[2653]Da rullus cioè circulator, roule,
rouler etc.
Alla p.2441. Luciano
nel Dial. X‹rvn µ ¤piskopoètew, dopo i due terzi del Dial. in
bocca di Caronte dice: „OrÇ poikÛlhn tinŒ tærbhn, kaÜ mestòn tarax°w tòn bÛon, kaÜ tŒw pñleiw ge aétÇn (ŽnJrÅpvn) ¤oikuÛaw toÝw sm®nesin, ¤n oåw ‘paw m¢n Þdiñn ti k¡ntron ¦xei, kaÜ tòn plhsÛon kenteÝ. ôlÛgoi d¢ tinew, Ësper sf°kew, gousi kaÜ f¡rousi tòn êpode¡steron.
Il vero
certamente non è bello: ma pur anch’esso appaga o, se non altro, affetta in
qualche modo l’anima, ed esiste senza dubbio il piacere della verità e della
conoscenza del vero, arrivando al quale, l’uomo pur si diletta e compiace,
ancorchè brutto e misero e terribile sia questo tal vero. Ma la peggior cosa
del mondo, e la maggiore infelicità dell’uomo si è trovarsi privo del bello e
del vero, trattare, convivere con ciò che non è nè bello nè vero. Tale si è la
sorte di chi vive nelle città grandi, dove tutto è falso, e questo falso non è
bello, [2654]anzi bruttissimo.
(Roma 13. Dic. 1822.)
Codicis (Vatic. Cic. de Repub.) orthographia miris
laborat varietatibus et inconstantia. Est enim id fatum latinae scripturae ac
pronunciationis, quod grammaticorum tot pugnantia praecepta infinitaeque
quaestiones demonstrant. Hinc merito Cassiodorius (Inst. praef.) orthographia
apud graecos plerumque sine ambiguitate probatur expressa; inter Latinos vero
sub ardua difficultate relicta monstratur; unde etiam modo studium magnum
lectoris inquirit. Exempli gratia, labdacismus (for. lambdacismus, sed in
emendd. nihil) proprius Afrorum fuit; sicut colloquium pro conloquium,
teste Isidoro (Orig. 1. 32.) Quid porro? nonne ipsa latinitas, uti observabat
Hieronymus (Prol. lib. II. comm. ad Gal.) (scil. ad ep. S. Paul. ad Galat.) et
regionibus quotidie mutabatur et tempore? postea praesertim quam tanta
barbarorum peregrinitas in imperium rom. infusa est, lingua autem generis
quarti esse coepit, quod Isidorus (Orig. IX. 1.) mixtum appellat. Maius. M.
Tulli Cic. de Re pub. quae supersunt edente [2655]Ang. Maio Vaticanae Bibliothecae
praefecto. Romae in Collegio Urbano apud Burliaeum 1822. Praefat. cap.13. p.
XXXVII.
Ed in vece di et si legge nel
Cod. antichissimo vaticano palimpsesto della rep. di Cic. l.1 c.3. p.10. dell’ediz.
qui sopra citata, ed disertos; e c.15. p.43. ed ipse, come
avverte il Mai nelle note, benchè nel testo riponga et. (17. Dic.
1822.). Anzi ivi l.3. c.2. p.218. dove l’ediz. ha et ut, il copista avea
scritto nel cod. e ut, e l’antico emendatore fece ed ut, forse
schivando il concorso delle due sillabe simili et, ut.
Quin
adeo de fin. 1. 3. ausus est Cicero latinam quoque linguam dicere
locupletiorem quam graecam, qua de re saepe se disseruisse confirmat. Sed
contradicunt merito primum ipse Cicero tusc. II. 15. et apud Augustinum contra
acad. II. 26; tum Lucretius 1. 140. 831; Fronto apud Gellium
II. 26. Maius ad Cic. de repub. p.67. not.
De Massiliae graecis legibus et litteratura, triplicique
lingua, graeca scilicet, latina et gallica, lege Varron. apud Isid. Orig. XV.
1. 63. et ap. Hieron. prolog. lib. II. comm. ad Gal. (scil. in ep. D. Pauli ad
Galat.). Confer etiam Caesarem Bell. Civil. II. 12. Tacitum Agric. IV. Silium
XV. 169. Homeri editio seu recensio massiliensis [2656]laudatur inter
nobiles in scholiis venetis. Maius loc. sup. cit. p.75. not.1.
(18. Dic. 1822.)
Quod quantae fuerit utilitati post videro
(onninamente per videbo) Cic. de re publ. l.2. c.9. Rom. 1822. p.142. v.
ult. Luogo da
aggiungersi a quelli che ho recati altrove per dimostrare l’uso antico del
futuro ottativo in vece del futuro indicativo; uso da cui sono nati tutti i
futuri di tutti i verbi italiani francesi e spagnuoli, distintiva de’ quali
futuri e caratteristica è sempre la r.
Ad Cic. de re publ. II. 10.
p.143. v. ult. ubi legitur septem, haec Maius editor ib. not. c. Cod. SEPTE.
Iam M finalem omitti interdum in antiquis codicibus exploratum est. An vero illud SEPTE e lingua
rustica est? Certe ita fere nunc loquuntur Itali. (19. Dic. 1822.). Nel
Conspectus Orthographiae Codicis Vaticani aggiunto dal Niebuhr a questa ediz.,
si legge p.352. col.2. SEPTE (II. 10.) et MORTUS (II. 18.) a desciscente in
vulgarem sermone tracta sunt. Le sillabe finali am em ec. s’elidevano ne’
versi. Dunque l’m infatti non si pronunziava. V. i miei pensieri sulla
sinizesi. V. la pag.2658.
KaÜ tÒ önti tò gan tÜ poieÝn, mag‹lhn fileÝ eiw toénantÛon matabol¯n Žntapodidñnai, ¤n Ëraiw te kaÜ ¤n futoÝw kaÜ ¤n sÅmasi, kaÜ d¯ kaÜ ¤n politeÛaiw oéx ´kista. Plato de rep. l.8. p.563.Plato de
rep. l.8. p.563. Il qual luogo è riportato da Cic. de rep. 1. 44. p.111-112.
(citato il [2657]nome di Platone fin dal c. preced. p.107.),
esprimendolo liberamente così: Sic omnia nimia, cum vel in tempestate vel in
agris vel in corporibus laetiora fuerunt, in contraria fere convertuntur,
maximeque (suppl. cum Maio, id) in rebus publicis evenit. Le quali
sentenze fanno a quella mia, che il troppo è padre del nulla. In fatti, come
seguono a dire Cic. e Plat. dalla troppa libertà nasce la servitù, cioè, dicon
essi, il contrario della libertà, ed io dico, il nulla della libertà, cioè la
fine; la niuna libertà.
(19.
Dic. 1822.)
Quoties g
est ante n, toties memini me videre in antiquis codd. si quando
vocabulum divideretur (nel fine o della riga o della pag.), litteram g
adhaerere priori vocabuli parti, n autem posteriori. Ergone Hispani
Angli et Germani melius quam Itali pronunciare haec verba videntur? Maius ad
Cic. de re publ. II. 19. p.165. v.7. (dove la pag. del cod. finisce in mag,
e la seguente comincia in na; cioè magna) not. b (20. Dic.
1822.). Bisogna però vedere in che paese sieno stati scritti questi codd. come
p.e. in Ispagna. V. p.3762.
[2658]Nella republ. di Cic. succitata, al
c.37. del lib.2. p.203. v.1.-2, dove l’edizione ha res publica richiedendosi
in fatti il nominativo, il Cod. ha repubblica, quasi fosse italiano. Dal
che apparisce che anche anticamente s’usava di tralasciare l’s finale
nel pronunziare le voci latine, come si lascia nelle nostre lingue. (21. Dic.
1822.). Infatti è nota l’apocope della s nella fine delle voci presso
gli antichi poeti latt. V. la p.2656, marg.
Eademque (mens aut ratio aut sapientia, ut
supplet Maius in notis et in addendis, nam superiora in cod. desiderantur) cum
accepisset homines inconditis vocibus incohatum quiddam et confusum sonantis
(sonantes), incidit (incídit) has et distinxit in partes; ET UT
SIGNA QUAEDAM, SIC VERBA REBUS INPRESSIT, hominesque antea dissociatos
iucundissimo inter se sermonis vinclo conligavit. A simili etiam mente, vocis
qui videbantur infiniti soni, paucis notis inventis, sunt omnes signati et
expressi, quibus et conloquia cum absentibus et indicia voluntatum, et
monumenta rerum praeteritarum tenerentur. ACCESSIT EOS NUMERUS, (post
interventas scil. voces et litteras) RES CUM AD VITAM NECESSARIA, tum [2659]una
inmutabilis et aeterna: quae prima inpulit etiam ut suspiceremus in caelum, nec
frustra siderum motus intueremur, di numerationibusque noctium ac dierum...(desunt reliqua) Cic. De re publica, l.3. c.2. Rom. 1822. p.218-9.
Il verbo
sum ebbe antichissimamente un participio presente e questo non fu il più
moderno ens entis, conservato ancora nella nostra lingua, e nella
spagnuola, ma sens sentis. Testimonio le voci prae-sens, ed ab-sens,
e con-sens, la quale ultima in verità non è altro che la preposizione cum
congiunta al participio presente di sum, e vale qui simul est,
onde Dii Consentes, Dii qui simul sunt. V. Forcell. in Consens, praesens
ec. Quindi si fortifica la mia conghiettura e che il verbo sum avesse
anche un participio passato, in us, come anticamente l’avevano gli altri
neutri, ed anche gli attivi in senso attivo (p.e. peragratus, cioè qui
peragravit, da peragro attivi), e che questo incominciasse per s,
onde da esso fosse [2660]formato il verbo sto.
(Roma
22. Dic. 1822.)
Cic. de
rep. l.3. c.8-20. p.230-48. sotto la persona di L. Furio Filo disputa contro la
giustizia, e dimostra la non esistenza della legge naturale, e reca in mezzo le
varietà e discordanze de’ costumi e delle leggi presso i diversi popoli, e de’
giudizi degli uomini e de’ vari secoli intorno al retto e al giusto, e a’ loro contrarii.
Degna d’esser letta è questa disputazione, massime per ciò che riguarda i vari
e ripugnanti giudizi delle antiche nazioni circa il così detto diritto naturale
e universale, o idea innata del giusto e del bene. E cita il Mai (nella 3. nota
della p.232.) sopra questo proposito S. Girolamo in Iovin. II. 7. sqq.
Sesto Empirico III. 24. et contra eth. 190. seqq. ed Erodoto III. 38.
quos auctores haud paenitendo cum fructu ii legent qui naturali civilique
historiae student.
(22.
Dic. 1822.)
Nella
sopraddetta disputazione è notabile un frammento (c.15. p.243.), dove Cicerone
in persona di Filo ricorda quella favolosa opinione che avevano gli Arcadi [2661]e
gli Ateniesi d’essere aétñxJonew, cioè terrae filii,
perlochè stimandosi di diversa origine e natura dagli altri uomini, niente
stimavano di dovere alle altre nazioni, benchè riconoscessero leggi e diritti
che obbligassero ciascuno individuo della propria nazione verso gli altri
individui della medesima. E v. quivi la nota 1. del Mai.
(22.
Dic. 1822.). V. p.2665.
Et
quamquam optatissimum est, perpetuo fortunam quam florentissimam permanere;
illa tamen aequabilitas vitae non tantum habet sensum, (mallem sensus 2do casu,
quod magis tullianum est) quantum cum ex saevis et perditis rebus ad meliorem
statum fortuna revocatur. Cic. ap. Ammian. Marcell. XV. 5.
E
pensatamente io chiamai figura non tutto quello, che si diparte dalla prima
formazion della lingua, ma dal più ordinario modo de’ parlatori presenti.
Imperocchè ciò che fu figura in un tempo, [2662]non riman poi figura
quando è sì accomunato dall’uso, che divien la più trivial maniera del
linguaggio usitato, dipendendo i linguaggi dall’arbitrio degli uomini, tanto
nell’introdursi, quanto nell’alterarsi; ed essendo i Gramatici non legislatori,
come alcun pensa, ma compilatori di quelle Leggi che per avanti la Signoria
dell’Uso ha prescritte. Trattato dello Stile e del Dialogo del Padre Sforza
Pallavicino della Compagnia di Gesù. Capo 4. Modena 1819. p.22.
Circa la
mia opinione che troia nell’antico latino volesse dire come in italiano scrofa,
vedi nel Forcellini troianus aggiunto di porcus, e che cosa ne
dica.
Il Padre
Sforza Pallavicino nel Trattato dello Stile e del Dialogo, Capo 27, intitolato
Si stabilisce quali Autori deono esser seguiti nelle materie scientifiche da
quelli che scrivono in Italiano, ovvero in Latino (ristampa di Modena 1819.
pag.175-8.) dà decisa ed universale, e non relativa ma assoluta preferenza agli [2663]scrittori, stile e lingua del 500, (e del seguente secolo ancora,
in cui egli scriveva) sopra quelli e quella del 300.
In
ristretto (in somma), la favella e la Scrittura sono indirizzate a’ coetanei,
ed a’ futuri, non a’ defunti. Pallavic. loc. sup. cit. pag.181 fine.
(5. Gen.
1823.)
Nemo
enim orator tam multa, ne in graeco quidem otio, scripsit, quam multa sunt
nostra. Cic. Orator, num.108, parlando delle sue orazioni.
Alla
p.2470. Delle metafore Cic. nell’Oratore, num.134, comandando che l’Oratore ne
faccia grand’uso dice: Ex omnique genere (subintell. rerum) frequentissimae
translationes erunt, quod eae propter similitudinem transferunt animos, et
referunt ac movent huc et illuc; qui motus cogitationis, celeriter agitatus,
per se ipse delectat.
In un
luogo di Lucilio portato da Cic. nell’Oratore num.149. leggi Aptae pavimento
per Arte. Vero è che la sillaba seconda del verso precedente è breve.
(10. Gen.
1823.)
Anticamente
i latini dicevano maxilla axilla etc. (Cic. Orator, n.155.), indi fecero
mala, ala, ec. Or noi conserviamo l’antico: mascella, ascella,
tassello. Dicevano anche siet per sit (vedi ib. num.159.); or
[2664]quello e non questo si dovette sempre conservare nell’uso del
popolo, come apparisce da sia, soit, sea. (10. Gen. 1823.). Notisi il
nostro uso simile, di aggiungere un’e alle vocali accentate: virtue,
fue ec.
Nell’Oratore
di Cic. num.196. illa ipsa delectarent, leggi non delectarent.
Transferenda tota dictio est
ad illa quae nescio cur, quum Graeci kñmmata et kÇla nominent, nos non recte incisa et
membra dicamus. Neque enim esse possunt rebus ignotis nota nomina; sed,
quum verba aut suavitatis aut inopiae causa transferre soleamus, in omnibus hoc
fit artibus, ut, quum id appellandum sit quod, propter rerum ignorationem
ipsarum, nullum habuerit ante nomen, necessitas cogat aut novum facere verbum,
aut a simili mutuari. Cic. Orator, num.209.
(11.
Gen. 1823.)
Nell’Oratore
di Cicerone num.231. cioè molto presso alla fine, leggi reperiant ipsâ eâdem
ec. per reperiam. (11. Gen. 1823.). Ivi, num.11. cioè non molto dopo il
principio, e durante ancora l’esordio, leggi ut sine causâ alte repetita
videatur, in vece d’ut non sine causâ alte repetitâ videatur. (12.
Gen. 1823.). Ivi, num.16. leggi de moribus sine multa in vece di de
moribus? sine ec. Ivi 19. poterimus fortasse discere per dicere.
Ivi 32. nomen eius non extaret per nomen eius extaret. (12. Gen. 1823.).
[2665]Ivi 83. leggi recte QUIDAM vocant Atticum, e v.
num.75. Ivi 88. leggi aut tempore alieno non alienum, giacchè
questa voce si riferisce a ridiculo. (12. Gen. 1823.). Ivi, 107. leggi laudata.
138. leggi quid caveat. (13. Gen. 1823. Roma, in letto.). 150. leggi in
dicendo. (13. Gen. 1823.). 182. leggi quid accideret o quid
accidisset. 195. leggi quisque o quique per cuique.
Alla
p.2661. Dell’antica presuntuosa opinione avuta da vari popoli, e massime dagli
Ateniesi, d’essere aétñxJonoi, e perciò differenti di nascita o
di diritti dagli altri uomini, con che giustificavano le conquiste, le
preminenze nazionali, le pretensioni che ciascun popolo aveva sugli altri
popoli, l’essere sciolti da ogni legge verso i forestieri, la schiavitù di
questi o nazionale o individuale, l’oppressione degl’inquilini o stranieri
domiciliati, l’odio in somma verso l’altre nazioni, mentre professavano amore
alla propria, e si stimavano obbligati dalla legge e dalla natura verso i
propri cittadini o connazionali, vedi anche l’orazione funebre recitata da
Socrate in persona d’Aspasia nel Menesseno di Platone, verso il principio.
[2666]La prosa francese (nazione e lingua
la più impoetica fra le moderne, che sono le più impoetiche del mondo) è molto
più poetica della stessa prosa antica scritta nelle lingue le più poetiche
possibili. Lo stesso mancare affatto di linguaggio poetico distinto dal
prosaico fa che lo scrittor francese confonda quello ch’è proprio dell’uno con
quel ch’è proprio dell’altro, e che come il poeta francese scrive prosaicamente
così il prosatore scriva poeticamente, e che la lingua francese manchi non solo
di linguaggio e stile poetico distinto per rispetto al prosaico, ma anche di
linguaggio e stile veramente prosaico, e ben distinto e circoscritto e definito
per rispetto al poetico. Questa è l’una delle cagioni della poeticità della
prosa francese. Altre ancora se ne potranno addurre, ma fra queste, una che ha
del paradosso e pure è verissima. La prosa francese è poetica perchè la lingua
francese è poverissima. Quindi la necessità di metafore di metonimie di
catacresi di mille figure di dizione che rendono poetica la lingua della prosa,
e secondo il nostro gusto, [2667]gonfia, concitata ed aliena da quella
semplicità, riposatezza, calma, sicurezza ed equabilità e gravità di passo che
s’ammira nelle prose latina e greca, le più poetiche lingue dell’occidente.
P.e. non avendo i francesi una parola che significhi unitamente il padre e la
madre, (come noi, che diciamo i genitori), sono obbligati a dire spesso les
auteurs de ses jours, des jours de quelqu’un, de celui-là etc. Queste tali
frasi necessarie e forzate, obbligano poi lo scrittor prosaico francese a
formar loro un contorno conveniente, a seguire una forma di dire, uno stile,
dove queste frasi, figure ec. non disdicano, e quindi a innalzare il tuono
della sua prosa, e dargli un color poetico tanto nello stile quanto nella
lingua: e così la povertà della lingua francese rende poetica la sua prosa, e
per le figure che l’obbliga ad usare in cambio delle parole che le mancano, e
per le figure che queste medesime figure forzate richiedono intorno a se, e
quasi portano con se, e per lo stile e il linguaggio e il tuono che queste
figure forzate [2668]domandano per non disdire.
(2. Feb.
1823.)
Chi mi
chiedesse quanto e fino a qual segno la filosofia si debba brigare delle cose
umane e del regolamento dello spirito, delle passioni, delle opinioni, de’
costumi, della vita umana; risponderei tanto e fino a quel punto che i governi
si debbono brigare dell’industria e del commercio nazionale a voler che questi
fioriscano, vale a dire non brigarsene nè punto nè poco. E sotto questo aspetto
la filosofia è veramente e pienamente paragonabile alla scienza dell’economia
pubblica. La perfezione della quale consiste nel conoscere che bisogna lasciar
fare alla natura, che quanto il commercio (interno ed esterno) e l’industria è
più libera, tanto più prospera, e tanto meglio camminano gli affari della
nazione; che quanto più è regolata tanto più decade e vien meno; che in somma
essa scienza è inutile, poichè il suo meglio è fare che le cose vadano come s’ella
non esistesse, e come anderebbero da per tutto dov’ella e i governi non s’intrigassero
del commercio e dell’industria; e la sua perfezione è [2669]interdirsi
ogni azione, conoscere il danno ch’essa medesima reca, e in somma non far
nulla, al quale effetto gli uomini non avevano bisogno d’economia politica, ma
s’ella non fosse stata, ciò si sarebbe necessariamente ottenuto allo stesso
modo, e meglio. Ora tale appunto si è la perfezione della filosofia e della
ragione e della riflessione ec. come ho detto altrove.
Sopra
quello che ho detto altrove che l’uso de’ sacrifizi nacque dall’egoismo del
timore. Toutes les fois que le courroux des dieux se déclare par
la famine, par une épidémie ou d’autres fléaux on tâche de le détourner sur un
homme et sur une femme du peuple, entretenus par l’état pour être, au besoin,
des victimes expiatoires, chacun au nom de son sexe. On les promène dans les
rues au son des instrumens; et après leur avoir donné quelques coups de verges,
on les fait sortir de la ville (d’Athènes). Autrefois on les condamnoit aux
flammes et on jetoit leurs cendres au vent. (Aristoph.
in equit. v.1133. Schol. ibid. Id. in ran. v.745. Schol. ib. Hellad. ap. Phot.
p.1590. Meurs. graec. fer. in thargel.). Voyage du jeune [2670]Anacharsis
en Grèce t.2. ch.21. 2e édit. Paris 1789. p.395. Vedete anche nello stesso capit. la 3°
pag. avanti a questa, circa i sacrifizi di vittime umane, i quali si facevano
principalmente ne’ maggiori pericoli e timori, come dice altrove il medesimo
autore.
Sopra la
riunione del sacerdozio e dello stato civile nelle medesime persone, presso gli
antichi, del che ho detto altrove; e come le funzioni del sacerdozio non impedissero
in modo alcuno gli antichi preti di servire alla patria. Chaque
particulier peut offrir des sacrifices sur un autel placé a la porte de sa
maison, ou dans une chapelle domestique. (Hesych. in ìdran.
Lomey. de lustrat. p.120.) Même ouvrage, même chap. p.397. (V. anche
Aristoph. in Plut. v.1155. et Schol. ibid.) Cette espèce de sacerdoce ne
devant exercer ses fonctions que dans une seule famille, il a fallu établir des
ministres pour le culte public. Ibid. Tous (les prêtres de la Grèce) pourroient se borner aux fonctions de leur ministère, et passer leurs jours
dans une douce oisivité. (Isocr. de permut. t.2. [2671]p.410.) Cependant plusieurs d’entre eux empressés a mériter par leur zèle les égards
dus à leur caractère, ont rempli les charges onéreuses de la république, et l’ont
servie soit dans les armées, soit dans les ambassades. (Herodot.
l.9. c.85. Plut. in Aristid. p.321. Xenoph. hist. graec. p.590. Demosth. in
Neaer. p.880.) Ibid. p.403. Vedi il 2° dell’Eneide intorno a Panto sacerdote, e l’Iliade intorno ad
Eleno ec.
(7. Feb. 1823.)
Parmi plusieurs de ces nations que les Grecs appellent
barbares, le jour de la naissance d’un enfant est un jour de deuil pour sa
famille. (Herodot. l.5. c.4. Strab. l.11. p.519. Anthol. p.16.) Assemblée
autour de lui, elle le plaint d’avoir reçu le funeste présent de la vie. Ces
plaintes effrayantes ne sont que trop conformes aux maximes des sages de la
Grèce. Quand on songe, disent-ils, à la destinée qui attend l’homme sur la
terre, il faudroit arroser de pleurs son berceau. (Eurip. fragm. Cresph. p.476.
Axioch. ap. Plat. t.3. p.368. Cic. tusc. l.1. c.48. t.2. p.273.) Même ouvrage
ch.26. t.2. p.3.
[2672]Le plus grand des malheurs est de
naître, le plus grand des bonheurs, de mourir. (Sophocl. Oedip. Colon. v.1289.
Bacchyl. et alii ap. Stob. serm.96. p.530. 531. Cic. tusc. l.1. c.48. t.2.
p.273.) La vie, disoit Pindare, n’est que le rêve d’une ombre (Pyth. 8.
v.136.); image sublime, et qui d’un seul trait peint tout le néant de l’homme.
Même ouvrage. ch.28. p.137. t.3.
Les plaisirs de l’esprit ont des retours mille fois
plus amers que ceux des sens. ib. p.139.
(10. Feb. 1823.)
M¯ proJumeÝsJai eiw t¯n ŒkrÛbeian filosofeÝn, Žllƒ eélabeÝsJai ÷pvw m¯ p¡ra toè d¡ontow sofÅteroi genñmenoi, l®sete diafJar¡ntew.
Plato in Gorgia ed. Frider. Astii. Lips. 1819 ... t.1. p.362-4. Ne enitamini ut
diligenter philosophemini, sed cavete ne, supra quam oportet, sapientiores
facti ipsi inscientes corrumpamini. FilosofÛa gŒr toÛ ¤stin, Î SÅkratew, xarÛen, n tiw aétoè metrÛvw ‘chtai: ¤Œn d¢ perait¡rv toè d¡ontow ¤ndiatrÛcú, diafJorŒ tÇn ŽnJrÅpvn. ib.
p.356. Philosophia enim, o Socrate, est illa quidem lepida, si quis eam modice
attingit, sin ultra quam opus est ei studet, corruptela est hominum. Tutta la vituperazione della
filosofia che Platone in quel Dial. mette in bocca di Callicle, dalla p.352.
alla p.362. è degna d’esser veduta. V’è anche insegnata (sebben Platone lo fa
per poi negarla e confutarla) la vera legge naturale, che ciascun uomo o
vivente faccia tutto per se, e il più forte sovrasti il più debole, e si goda
quel di costui. (Roma 12. Feb. [2673]1823. primo dì di
Quaresima.)
Alla p.2670. Le peuple de Leucade qui célèbre tous les
ans la fête d’Apollon, est dans l’usage d’offrir à ce dieu un sacrifice
expiatoire, et de détourner sur la tête de la victime tous les fléaux dont il
est menacé. On choisit pour cet effet un homme condamné à subir le dernier
supplice. On le précipite dans la mer du haut de la montagne de Leucade. Il
périt rarement dans les flots; et après l’en avoir sauvé, on le bannit à
perpétuité des terres de Leucade. (Strab. l.10. p.452. Ampel. memorab. c.8.)
Voyage d’Anacharsis etc. ch.36. t.3. p.402.
Pianger
si de’ il nascente ch’incomincia Or a solcare il mar di tanti mali, E con gioia
al sepolcro s’accompagni, L’uscito de’ travagli della vita. Poeta antico appo
Plutarco Come debba il giovane udir le poesie, volgarizzamento di
Marcello Adriani il giovane, pagina ultima, cioè p.169. del tomo primo Opuscoli
morali di Plutarco volgarizzati da Marcello Adriani il giovane stampati per
la prima volta in Firenze, Piatti, 1819.
Dei
beni umani il più supremo colmo È sentir meno il duolo. Sentenza che racchiude la somma
di tutta la filosofia morale e antropologica. Poeta antico nel luogo citato qui
sopra.
(19.
Feb. 1823.)
[2674]…Embraxu per insomma, denique ec.
come noi diciamo appunto in breve. Platone, Gorgia, ed. principe Ald.
t... p.457. A.
(19.
Feb. 1823.)
Grave
non è nè a farsi nè a soffrirsi Quello a che noi necessità costringe. Tragico
antico, ap. Plut. Discorso di consolazione ad Apollonio, una pagina avanti il
mezzo. Volgarizzamento di Marcello Adriani il giovine. Fir. 1819. t.1. p.194.
Alla p.
antecedente. V. un detto di Crantore, e un frammento d’Aristotele in questo
proposito, appresso il medesimo Plutarco dell’Adriani, nel Discorso di
consolazione ad Apollonio t.1. p.203-4. e un verso di Menandro ib. 213.
On ne fait entrer dans la cavalerie (Lacédémonienne) que
des hommes sans expérience, qui n’ont pas assez de vigueur ou de zèle. C’est le
citoyen riche qui fournit les armes, et entretient le cheval. (Xen. hist. gr.
l.6. p.596.). Si ce corps a remporté quelques avantages il les a dus aux
cavaliers étrangers que Lacédémone prenoit à sa solde (Id. de magistr. equit.
p.971.). En général les Spartiates aiment mieux servir dans l’infanterie:
persuadés que le vrai courage se suffit à lui-même, ils veulent combattre corps
à corps. J’étois auprès du roi Archidamus, quand on lui présenta le modèle d’une
machine à lancer des traits, nouvellement inventée en Sicile. Après l’avoir
examinée avec attention: C’en est fait, dit-il, de la valeur. (Plut.
apophth. Lac. t.2. p.219.) Voy. d’Anach. ch.50. t.4. p.252. Applicate [2675]tutto questo
all’invenzione ed uso delle armi da fuoco ed alla milizia moderna.
Alla p.2665. Les Arcadiens se regardent comme les enfans
de la terre, parce qu’ils ont toujours habité le même pays, et qu’ils n’ont
jamais subi un joug etranger. (Thucy. l.1. c.2. Xen. hist. gr. l.7. p.618.
Plut. quaest. roman. t.2. p.286.). Même ouvrage ch.52. t.4. p.295.
(23. Feb. 1823.)
Dans les transports de sa joie (Cydippe la prêtresse de
Junon), elle supplia la Déesse d’accorder à ses fils (Biton et Cléobis) le plus
grand des bonheurs. Ses voeux furent, dit-on, exauces: un doux sommeil les
saisit dans le temple même (de Junon, entre Argos et Mycènes) et les fit
tranquillement passer de la vie à la mort; comme si les dieux n’avoient pas de
plus grand bien à nous accorder, que d’abréger nos jours. (Herodot. I. 31.
Axioch. ap. Plat. t.3. p.367. Cic. Tusc. I. 47. Val. Max. v.4. estern. 4. Stob. serm.169. p.603. Serv.
et Philarg. in Georg. III. 532.) Même ouvrage ch.53. t.4. p.343-4. Aggiungi
Plutarco nel libro della consolazione ad Apollonio, volgarizzamento di Marcello
Adriani il giovine. Fir. 1819. t.1. p.189. e vedi ciò ch’egli soggiunge a
questo proposito. Al qual luogo egli ha rispetto nella pag.213. da me citata
qui a tergo.
[2676]La statue de Telesilla (famosa
poetessa d’Argo, e guerriera, salvatrice della sua patria) fut posée sur une
colonne, en face du temple de Vénus; loin de porter ses regards sur des volumes
représentés et placés à ses pieds, elle les arrête avec complaisance sur un
casque qu’elle tient dans sa main, et qu’elle va mettre sur sa tête. (Pausan. 11. 20. p.157.). Même
ouvrage. l.c. p.338. Così potrebb’essere rappresentata la nazione latina, la
nazion greca e tutta l’antichità civile: inarrivabile e inarrivata nelle
lettere e arti belle, e pur considerante l’une e l’altre come suoi passatempi,
ed occupazioni secondarie; guerriera, attiva e forte.
(25.
Feb. 1823.)
Gli
scrittori greci più eleganti ed attici e antichi sogliono usare la voce fhsÜ per fasÜ
nel significato di aiunt, è fama, on dit, il singolare invece del
plurale (forma ellittica per fhsi tiw uom dice, altri dice). Così
noi volgarmente tutto giorno, e non solo noi nel parlare, ma eziandio gli
scrittori nostri, massime del trecento, usiamo dice per dicono, altri
dice, l’uom dice, un dice (on dit). Passavanti Ediz. Venez. del Bortoli
p.251. E così DICE che fa il Leone. Mi ricordo di aver trovato
questa frase anche in altri trecentisti, e mi par senza fallo nelle Vite de’
Santi Padri. Quest’uso che noi abbiamo comune cogli antichissimi e più eleganti
e puri scrittori greci, per qual mezzo ci può esser venuto se non per quello
dell’antico [2677]volgar latino? Sempre ch’io trovo qualche conformità frappante fra il greco e l’italiano (massime l’italiano volgare, popolare, corrente e
parlato) e così il francese e lo spagnuolo, conformità che non appartenga alla
natura generale delle favelle, ma alle proprietà arbitrarie ed accidentali
delle lingue, se quella tal qualità o parte ec. sopra cui cade questa
conformità, non si trova negli scrittori latini, io tengo per fermo ch’ella si
trovasse nel latino parlato, cioè nel volgar latino. Giacchè questo ebbe
commercio col volgar greco, e quel ch’è più, venne da una medesima fonte col
greco; e da esso volgar latino è venuto il nostro volgare. Ma qual commercio
ebbe mai il nostro volgare col volgar greco, cioè col greco parlato, e massime
coll’antico? qual commercio poi col greco scritto, e questo pure antichissimo?
Quanto al nostro caso, io non credo che negli scrittori latini si trovi p.e. ait
in vece di aiunt. Ma veggasi il Forcellini.
Tutti gl’imperi,
tutte le nazioni ch’hanno ottenuto dominio sulle altre, da principio hanno
combattuto con quelli di fuori, co’ vicini, co’ nemici: poi liberati dal timore
esterno, e soddisfatti dell’ambizione e della cupidigia di dominare sugli
stranieri e di possedere quel di costoro, e saziato l’odio nazionale contro l’altre
nazioni, hanno sempre rivolto il ferro [2678]contro loro medesime, ed
hanno per lo più perduto colle guerre civili quell’impero e quella ricchezza
ec. che aveano guadagnato colle guerre esterne. Puoi vedere p.3791. Questa è
cosa notissima e ripetutissima da tutti i filosofi, istorici, politici ec.
Quindi i politici romani prima e dopo la distruzion di Cartagine, discorsero
della necessità di conservarla, e se ne discorre anche oggidì ec. L’egoismo
nazionale si tramuta allora in egoismo individuale: e tanto è vero che l’uomo è
per sua natura e per natura dell’amor proprio, nemico degli altri viventi e
se-amanti; in modo che s’anche si congiunge con alcuno di questi, lo fa per
odio o per timore degli altri, mancate le quali passioni, l’odio e il timore si
rivolge contro i compagni e i vicini. Quel ch’è successo nelle nazioni è
successo ancora nelle città, nelle corporazioni, nelle famiglie ch’hanno
figurato nel mondo ec. unite contro gli esteri, finchè questi non erano vinti,
divise e discordi e piene d’invidia ec. nel loro interno, subito sottomessi gli
estranei. Così in ciascuna fazione di una stessa città, dopo vinte le contrarie
o la contraria. V. il proem. del lib.7. delle Stor. del Machiavello. Ed è bello
a questo proposito un passo di Plutarco sulla fine del libro Come si potria
trar giovamento da’ nimici (Opusc. mor. di Plut. volgarizz. da Marcello
Adriani il giovane. Opusc. 14. Fir. 1819. t.1. p.394.) La qual cosa ben
parve che comprendesse [2679]un saggio uomo di governo nominato
Demo, il quale, in una civil sedizione dell’isola di Chio, ritrovandosi dalla
parte superiore, consigliava i compagni a non cacciare della città tutti gli
avversarj, ma lasciarne alcuni, acciò (disse egli) non incominciamo a
contendere con gli amici, liberati che saremo interamente da’ nimici: così
questi nostri affetti (soggiunge Plutarco, cioè l’emulazione, la
gelosia, e l’invidia) consumati contra i nimici meno turberanno gli
amici. V. ancora gl’Insegnamenti Civili di Plut. dove il cit. Volgarizz.
p.434. ha Onomademo in vece di Demo: önoma D°mow.
Ora
nello stesso modo che alle famiglie, alle corporazioni, alle città, alle
nazioni, agl’imperi, è accaduto al genere umano. Nemici naturali degli uomini
furono da principio le fiere e gli elementi ec.; quelle, soggetti di timori e d’odio
insieme, questi di solo timore (se già l’immaginazione non li dipingeva a quei
primi uomini come viventi). Finchè durarono queste passioni sopra questi
soggetti, l’uomo non s’insanguinò dell’altro uomo, anzi amò e ricercò lo
scontro, la compagnia, l’aiuto del suo simile, senz’odio alcuno, senza invidia,
senza sospetto, come il leone non ha sospetto del leone. Quella fu veramente l’età
dell’oro, e l’uomo era sicuro tra gli uomini: non per altro se non perch’esso e
gli altri uomini odiavano e temevano de’ viventi e degli [2680]oggetti
stranieri al genere umano; e queste passioni non lasciavano luogo all’odio o
invidia o timore verso i loro simili, come appunto l’odio e il timore de’
Persiani impediva o spegneva le dissensioni in Grecia, mentre quelli furono
odiati e temuti. Quest’era una specie d’egoismo umano (come poi vi fu l’egoismo
nazionale) il quale poteva pur sussistere insieme coll’individuale, stante le
dette circostanze. Ma trovate o scavate le spelonche, per munirsi contro le
fiere e gli elementi, trovate le armi ed arti difensive, fabbricate le città
dove gli uomini in compagnia dimoravano al sicuro dagli assalti degli altri
animali, mansuefatte alcune fiere, altre impedite di nuocere, tutte sottomesse,
molte rese tributarie, scemato il timore e il danno degli elementi, la nazione
umana, per così dire, quasi vincitrice de’ suoi nemici, e guasta dalla
prosperità, rivolse le proprie armi contro se stessa, e qui cominciano le
storie delle diverse nazioni; e questa è l’epoca del secolo d’argento, secondo
il mio modo di vedere; giacchè l’aureo, al quale le storie non si stendono, e
che resta in balìa della favola, fu quello precedente, tale, quale l’ho
descritto.
Plutarco
nel principio degl’Insegnamenti civili, volgarizzamento cit. di sopra, Opusc.
15. t.1. p.403. Molto meno arieno ancora gli [2681]Spartani patito l’insolenza,
e buffonerie di Stratocle, il quale avendo persuaso il popolo (credo Ateniese,
o Tebano) a sacrificare come vincitore; che poi sentito il vero della rotta si
sdegnava, disse: Qual ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa, ed
in gioja per ispazio di tre giorni? Agli Spartani si possono paragonate i
filosofi, anzi questo secolo, anzi quasi tutti gli uomini, avidi del sapere o
della filosofia, e di scoprir le cose più nascoste dalla natura, e per
conseguenza di conoscere la propria infelicità, e per conseguenza di sentirla,
quando non l’avrebbero sentita mai o di sentirla più presto. E la risposta di
Stratocle starebbe molto bene in bocca de’ poeti, de’ musici, degli antichi
filosofi, della natura, delle illusioni medesime, di tutti quelli che sono
accusati d’avere introdotti o fomentati, d’introdurre o fomentare o promuovere
de’ begli errori nel genere umano, o in qualche nazione o in qualche individuo.
Che danno recano essi se ci fanno godere, o se c’impediscono di soffrire, per
tre giorni? Che ingiuria ci fanno se ci nascondono quanto e mentre possono la
nostra miseria, o se in qualunque modo contribuiscono a fare che l’ignoriamo o
dimentichiamo?
[2682]Grazia dal contrasto. Conte
Baldessar Castiglione, Il Libro del Cortegiano. lib.1. Milano, dalla Società
tipogr. de’ Classici italiani, 1803. vol.1. p.43-4. Ma avendo io già più volte
pensato meco, onde nasca questa grazia, lasciando quegli che dalle stelle l’hanno,
trovo una regola universalissima; la qual mi par valer circa questo in tutte le
cose umane, che si facciano, o dicano, più che alcuna altra; e ciò è fuggir
quanto più si può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio la affettazione;
e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che
nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza fatica, e
quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia: perchè
delle cose rare, e ben fatte ognun sa (p.44. dell’ediz.) la DIFFICULTÀ, onde in esse la FACILITÀ genera grandissima maraviglia; e per lo
contrario, lo sforzare, e, come si dice, tirar per i capegli, dà somma
disgrazia, e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia.
In vero
rare volte interviene che chi non è assueto [2683]a scrivere, per
erudito che egli si sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed
industrie degli scrittori, nè gustar la dolcezza ed eccellenza degli stili, e
quelle intrinseche avvertenze che spesso si trovano negli antichi. Il medesimo,
ivi, p.79. Da quanto pochi adunque può sperar degna, vera ed intima e piena e
perfetta stima e lode il perfetto scrittore o poeta! e per quanto pochi scrive
e prepara piaceri colui che scrive perfettamente! V. p.2796.
Nè altro
vuol dir il parlar antico, che la consuetudine antica di parlare; e sciocca
cosa sarebbe amar il parlar antico, non per altro che per voler più presto
parlare come si parlava, che come si parla. Il medesimo,
ivi, p.64.
(15. Marzo 1823.)
Quelques sages, épouvantés des vicissitudes qui
bouleversent les choses humaines, supposèrent une puissance qui se joue de nos
projets, et nous attend au moment du bonheur, pour nous immoler à sa cruelle
jalousie. (Herod. I. 32. III. 40. VII. 46. Soph. in Philoct. v.789.) Voyage d’Anacharsis.
ch.71. p.136. t.6.
«L’excès de la raison et de la vertu, est presque aussi
funeste que celui des plaisirs (Aristot. de mor. II. 2. t.2. p.19.); la nature
nous a donné des goûts qu’il est aussi dangereux d’éteindre que d’épuiser.» Même ouvrage ch.78. t.6. p.456.
[2684]L’uomo sarebbe felice se le sue
illusioni giovanili (e fanciullesche) fossero realtà. Queste sarebbero realtà,
se tutti gli uomini le avessero, e durassero sempre ad averle: perciocchè il
giovane d’immaginazione e di sentimento, entrando nel mondo, non si troverebbe
ingannato della sua aspettativa, nè del concetto che aveva fatto degli uomini,
ma li troverebbe e sperimenterebbe quali gli aveva immaginati. Tutti gli uomini
più o meno (secondo la differenza de’ caratteri), e massime in gioventù,
provano queste tali illusioni felicitanti: è la sola società, e la
conversazione scambievole, che civilizzando e istruendo l’uomo, e assuefacendolo
a riflettere sopra se stesso, a comparare, a ragionare, disperde
immancabilmente queste illusioni, come negl’individui, così ne’ popoli, e come
ne’ popoli, così nel genere umano ridotto allo stato sociale. L’uomo isolato
non le avrebbe mai perdute; ed elle son proprie del giovane in particolare non
tanto a causa del calore immaginativo, naturale a quell’età, quanto della
inesperienza, e del vivere isolato che fanno i giovani. Dunque se l’uomo avesse
continuato a vivere isolato, non avrebbe mai perdute le sue illusioni
giovanili, e tutti gli uomini le [2685]avrebbero e le conserverebbero
per tutta la vita loro. Dunque esse sarebbero realtà. Dunque l’uomo sarebbe
felice. Dunque la causa originaria e continua della infelicità umana è la
società. L’uomo, secondo la natura sarebbe vissuto isolato e fuor della
società. Dunque se l’uomo vivesse secondo natura, sarebbe felice.
ƒOlÛgou d¡v toèto poieÝn
µ paJeÝn: ôlÛgou deÝn kaÜ Žpñlvla: ôlÛgou deÝ toèto gen¡sJai: polloè ge kaÜ deÝ polloè µ mikroè ¤d¡hsen µ ¤d¡hsa: mikroè deÝn ec. Peu s’en faut: beaucoup s’en
faut: peu s’en fallut ec. poco mancò che ec. di poco fallò, per poco, per poco
non, ec. V. p.3817.
(1.
Aprile. 1823.)
A noi
pare bene spesso di provar del piacere dicendo, o fra noi stessi o con altri,
che noi ne abbiamo provato. Tanto è vero che il piacere non può mai esser
presente, e quantunque da ciò segua ch’esso non può neanche mai esser passato,
tuttavia si può quasi dire ch’esso può piuttosto esser passato che presente.
Le ciel qui nous donna la réflexion pour prévoir nos
besoins, nous a donné les besoins pour mettre [2686]des bornes à notre
réflexion. Études de la Nature par Jacques-Bernardin-Henri de Saint-Pierre.
Paul et Virginie. dans le Dialogue entre Paul et le Vieillard. Paris de l’imprimerie
de Monsieur. 3e édit. tom.4. p.132.
En Europe le travail des mains déshonore. On l’appelle
travail méchanique. Celui même de labourer la terre y est le plus méprisé de
tous. Un artisan y est bien plus estimé qu’un paysan. loc. cit. pag.136. Tutto l’opposto era fra gli
antichi, appresso i quali gli agricoltori e l’agricoltura erano in onore, e l’arti
manuali o meccaniche (ai banausikaÜ t¡xnai) e i professori delle medesime
erano infami. V. Cic. de Offic. l.1. e l’Economico di Senofonte, e quello
attribuito già ad Aristotele.
(14.
Aprile 1823.)
Sopra il
verbo difendere usato già dagli antichi Latini come da’ francesi e dagli
antichi italiani e dagli spagnuoli per proibire, vedi Perticari Apologia
di Dante p.157.
Usano i
buoni scrittori greci elegantemente l’infinito dei verbi in luogo della seconda
e della terza persona dell’imperativo. Toèto poieÝn invece di toèto poÛei sé, o di toèto poieÛtv[2687]¤keÝnow, o di toètopoieÛsJv (hoc fiat) o di toètopoiht¡on o di toètopoieÝndeÝ la quale ultima parola si
sottintende in questa formola ellittica di toètopoieÝn. Simile a quest’uso è quello degl’italiani
di usare l’infinito in vece della seconda persona singolare dell’imperativo,
quando precede una particella negativa ossia vietativa. Non fare, non dire per
non fa, non di’. Il qual uso viene dal comune rustico romano, ossia da
quella lingua in cui degenerò il latino d’Europa ne’ bassi tempi, che si parlò
in tutta l’Europa latina, e da cui nacquero le lingue italiana, francese,
spagnuola, portoghese, e i loro dialetti. V. il Perticari, Apologia di Dante
p.170. Ma quest’uso figurato è rimasto ai soli italiani, benchè già fosse
proprio anche dei provenzali, come dimostra il Perticari, loc. cit. I greci
dicevano ancora m¯toètopoieÝn per m¯toètopoÛei. Così ancora invece delle seconde
e terze persone imperative plurali, cioè invece di m¯toètopoieÝte o poieÛtvsan. V. Senofonte Pñroi, c.4. num.40. Platon. Sophist. t.2. Astii p.346. v.11. E.
(12.
Maggio 1823.)
[2688]Il Perticari nell’Apolog. di Dante
p.207. not.19. trovando in un’antica canzone provenzale il verbo arsare dice che questa è la radice della voce arso, la quale finora è sembrato
vocabolo senza radice, giacchè dal verbo ardere dovrebbe derivare arduto
e non arso. S’inganna: ed anzi il verbo arsare deriva da arso
di ardere che n’è la radice. I participii de’ nostri verbi sono per lo
più i participii latini, quando il verbo è latino. Se in questi participii è
qualche anomalia, la ragione e l’origine della medesima, non si deve cercare
nell’italiano nè nel provenzale, ma nel latino, sia che quest’anomalia esista
anche nel latino, sia che quel participio (e così dico delle altre voci) ch’è
anomalo per noi, non lo sia per li latini. Giacchè l’uso italiano, massime nel
particolare dei participii, ha seguito ordinariamente l’uso latino senza
guardare se questo corrispondesse o no alle regole o all’analogia della nuova
lingua che si veniva formando. E moltissime irregolarità della nostra lingua e
delle sue sorelle vengono dalla sua cieca conformità colla lingua madre. Da sospendere,
prendere, accendere, [2689]discendere ec. secondo l’analogia
della nostra lingua, verrebbe sospenduto, prenduto, accenduto, discenduto,
difenduto ec. Ma i latini dicevano suspensus, prensus, defensus ec.
Dunque anche gl’italiani sospeso, preso, acceso, disceso, difeso ec. Nè
la radice p.e. di preso è il prensare (che anzi viene da prensus)
ma il prehendere o prendere de’ latini. Al contrario i latini da vendere
facevano venditus; qui la nostra lingua segue la sua analogia e dice venduto
da venditus
[3]
,
non veso, perchè il latino non dice vensus. Credo anch’io che gli
antichi latini dicessero suspenditus, prenditus, accenditus ec. ma se
poi dissero diversamente, l’anomalia di preso, acceso ec. non è d’origine
italiana nè provenzale, ma latina. Così da ardere noi dovremmo fare arduto.
Ma sia che i primi latini dicessero arditus da ardeo, come
dissero ardui per arsi, sia che nol dicessero mai, certo è che
poi e comunemente dissero arsi, arsurus, arsus, supino arsum. Noi
dunque non diciamo arduto ma arso, e diciamo arso [2690]perchè
così dissero i latini, e l’origine di quest’anomalia si cerchi nel latino dov’ella
pur fu e donde ella venne, non nell’italiano o nel provenzale o nella lingua
romana o romanza; quando è chiaro ch’ell’è tanto più antica di tutte queste
lingue. Similmente da audeo dovevasi fare auditus. Ma i latini a
noi noti fecero ausus. Anomalia della stessa natura e condizione di arsus
da ardeo, seconda congiugazione come audeo. Quest’ausus è
il nostro oso nome: da questo nome oso viene osare, che i
provenzali dissero o almeno scrissero anche ausar (Perticari l.c. p.210.
lin.7.): ed infatti osare non è che un continuativo barbaro d’audere ch’è la sua radice prima, e l’immediata è ausus. Ma il Perticari
viceversa direbbe che oso ed ausus viene da osare e da ausare,
giacchè dice che arso viene da arsare. Quasi che, anche secondo l’analogia
della nostra lingua, da arsare si potesse far arso: e non
piuttosto arsato, ch’è il [2691]suo vero participio, e ben
differente da arso ch’è participio d’un altro verbo.
Questo e
altri tali errori del Perticari e d’altri moltissimi grammatici antichi e
moderni, vengono dalla poca notizia che costoro hanno avuta della formazione e
derivazione de’ verbi in are da’ participii regolari o anomali d’altri
verbi; formazione usitatissima da’ latini, presso de’ quali i verbi così
formati erano continuativi; e seguitata ad usare larghissimamente ne’ tempi
bassi e ne’ principii delle moderne lingue dell’Europa latina.
Ausus
sum: son oso.
Questa frase italiana corrispondente alla latina, conferma, seppur ve n’è
bisogno, l’identità del nome oso col participio ausus, sola voce
del verbo audere che si sia conservata nell’uso delle lingue figlie
della latina, e madre di più voci moderne, come osare, oser, osadìa, osado (participio d’ausare), osadamente ec.
Somma
conformabilità dell’uomo. Le bestie sono più o meno addomesticabili, secondo
che sono più o [2692]meno assuefabili e conformabili di natura. Ma nè le
bestie domestiche convivendo coll’uomo, nè queste o altre bestie convivendo con
bestie di specie diversa dalla loro, contraggono il carattere e i costumi umani
o di quelle altre bestie, nè i caratteri di più bestie di specie diversa si
mescolano tra loro per convivere che facciano insieme; ma solamente le bestie
domestiche ricevono certe assuefazioni particolari, e certi costumi non
naturali portati dalle circostanze, i quali non hanno però che far niente coi
costumi dell’uomo. Ma l’uomo convivendo colle bestie, contrae veramente gran
parte del carattere di queste, ed altera il suo proprio per una effettiva
mescolanza di qualità naturali alle bestie con cui convive. È cosa osservata
nella campagna romana, e nota quivi alle persone che per mestiere per abito e
per natura sono tutt’altro che osservatrici, che i pastori e guardiani delle
bufale, sono ordinariamente stupidi, lenti, goffi, rozzissimi, selvatici e tali
che poco hanno dell’uomo: che i pastori de’ [2693]cavalli sono svelti,
attivi, pronti, vivaci, arguti, agili di corpo e di spirito: quelli delle
pecore, semplici, mansueti, ubbidienti ec. (Recanati 16. Maggio 1823.). E tra gli
abitanti della campagna romana i due estremi della zotichezza e della spiritualité e furberia, della torpidezza e del brio, della dappocaggine, pigrizia ec. e
dell’attività, sono i guardiani delle bufale e quei de’ cavalli; come lo sono i
caratteri di queste specie di animali fra quelle che abitano nella detta
campagna.
Degli
scrittori non romani che scrissero in latino, e son tenuti classici in quella
lingua e letteratura vedi Perticari, Apologia di Dante, capo 30. p.314-16.
(Recanati
16. Maggio. 1823.)
Del
disprezzo in cui fu tenuta dai dotti la lingua italiana (detta volgare) nel
300, nel 400 e nel 500, a paragone della latina, vedi Perticari loc. cit. capo
34. (16. Maggio 1823.). Vedi anche il fine della Lezione dell’ordine dell’Universo
di Pier Francesco Giambullari nelle Prose Fiorentine par. 2. vol.2. (Venez.
1735. t.3. par. 2. p.24.fine-25.).
[2694]Formata una volta una lingua
illustre, cioè una lingua ordinata, regolare, stabilita e grammaticale, ella
non si perde più finchè la nazione a cui ella appartiene non ricade nella
barbarie. La durata della civiltà di una nazione è la misura della durata della
sua lingua illustre e viceversa. E siccome una medesima nazione può avere più
civiltà, cioè dopo fatta civile, ricadere nella barbarie, e poi risorgere a
civiltà nuova, ciascuna sua civiltà ha la sua lingua illustre nata, cresciuta,
perfezionata, corrotta, decaduta e morta insieme con lei. Il qual rinnuovamento
e di civiltà e di lingua illustre, ha, nella storia delle nazioni conosciute, o
vogliamo piuttosto dire, nella storia conosciuta, un solo esempio, cioè quello
della nazione italiana. Perchè niuna delle altre nazioni state civili in
antico, sono risorte a civiltà moderna e presente, e niuna delle nazioni
presentemente civili, fu mai civile (che si sappia) in antico, se non l’italiana.
Così niun’altra nazione può mostrare due lingue illustri da [2695]lei
usate e coltivate generalmente, (come può far l’italiana) se non in quanto la
nostra antica lingua, cioè la latina, si diffuse insieme coi nostri costumi per
l’Europa a noi soggetta, e fece per qualche tempo italiane di costumi e di
lingua e letteratura le Gallie, le Spagne, la Numidia (che non è più risorta a
civiltà) ec.
Ma
tornando al proposito nostro, siccome la Grecia, in tutta la storia conosciuta,
è la nazione che per più lungo tempo ha conservato una civiltà, così la lingua
greca illustre è di tutte le lingue illustri conosciute nella storia antica o
moderna, quella che ha durato più lungo tempo. Sebbene nei secoli bassi la
civiltà greca fosse in gran decadenza, e similmente e proporzionatamente la
lingua greca illustre, nondimeno la Grecia non divenne assolutamente barbara,
se non dopo la presa di Costantinopoli, conservandosi almeno qualche parte
della civiltà greca, se [2696]non altro, nella Corte di Bisanzio finchè
questa durò. E fino a questo medesimo termine durò ancora la lingua greca
illustre, in maniera che gli scrittori greci di questi ultimi tempi, come
Teofilatto e quei della Storia Bizantina, sono per la più parte intelligibili e
piani senz’altro particolare studio, a tutti quelli che intendono Omero ed
Erodoto. Di modo che la lingua greca illustre durò sempre una e sempre quella,
per 23 secoli, cioè da Omero fino all’ultimo imperatore greco. Durata
maravigliosa: ma tale altresì fu quella della greca civiltà. Perchè la Grecia
per niuna circostanza di tempi non divenne mai interamente barbara finchè non
fu tutta suddita de’ turchi; nè mai per tutto l’intervallo de’ secoli
antecedenti fu priva di letteratura, neanche ne’ peggiori secoli, come si può
vedere, considerando anche solamente la Biblioteca di Fozio scritta nel nono
secolo, e le varie opere di Tzetze [2697]scritte nel 12° oltre il
Violario d’Eudocia Augusta, il Lessico di Suida ec. opere che in niun’altra
parte del mondo fuor della parte greca, quando pur fossero state tradotte nelle
rispettive lingue, si sarebbero a quei tempi sapute neppure intendere, non che
comporne delle simili.
La
lingua illustre latina nata tanto più tardi, tanto più presto morì, perchè la
civiltà italiana e quella di tutta l’Europa latina per diverse circostanze finì
pochissimi secoli dopo nata. Già quando Costantino trasportò la corte in
Bisanzio, la Grecia vinceva d’assai e per civiltà e per letteratura il mondo
latino, e massimamente l’Italia. E forse questa fu una delle cagioni che
indussero Costantino a quel traslocamento, il quale fu poi un’altra circostanza
che contribuì a mantenere la civiltà in Grecia, e seco la lingua illustre
(coltivata poi da Temistio, da Libanio, da Giuliano imperatore da Giamblico, da
Gregorio, da Basilio ben superiori in [2698]grecità a quello che furono
in latinità Girolamo, Agostino, Ambrogio, Gregorio e Leone Papi, Ammiano,
Boezio), ed aiutò la corruzione ed estinzione della civiltà e della lingua
illustre latina, massime in Italia, dove mancò affatto una corte latina. La
quale per poco tempo fu nelle Gallie, e vi produsse Sidonio e Pacato e gli
altri nobili letterati di que’ tempi, e fece per allora quella provincia
superiore senza comparazione per latinità, letteratura e civiltà alla stessa
Italia che le avea compartite alle Gallie. Finchè le conquiste fatte dai Barbari
distrussero affatto e la civiltà e la lingua illustre in tutta l’Europa latina.
La nuova
nostra lingua illustre fu sufficientemente organizzata e stabilita nel 300
insieme colla nuova civiltà italiana. Questa ancor dura e non s’è mai più
perduta. Dunque anche la lingua italiana illustre del 300, nè si è mai perduta,
e dura ancora dopo ben cinque secoli: e quei trecentisti che più si divisero
dal parlar plebeo e dai particolari dialetti separati, o (come in [2699]Dante)
mescolati, quali sono il Petrarca, il Boccaccio, il Passavanti, il traduttore
delle Vite de’ Padri, eccetto alcune poche e sparse parole o frasi, sono ancora
moderni per noi, e la loro lingua è fresca e viva, come fosse di ieri. La
differenza tra essi e noi sta quasi tutta nello stile e ne’ concetti. V.
p.2718.
Al contrario le lingue non bene o sufficientemente organizzate e regolate, variano continuamente e in breve si spengono quasi affatto, e fanno luogo a lingue quasi nuove, anche durando il medesimo stato della nazione, sia di civiltà (se pur vi fu mai civiltà non accompagnata da lingua illustre), sia di maggiore o minore barbarie. La lingua provenzale benchè scritta da tanti in poesia ed in prosa, pure perchè non ordinata sufficentemente nè ridotta a grammatica, è tutta morta dopo brevissima vita. E degli stessi trecentisti italiani, quelli che più s’accostarono al dir plebeo e provinciale, fosse fiorentino o qualunque, siccome tanti scrittori fiorentini o toscani di cronichette o d’altro, sono già da gran tempo scrittori di lingua per grandissima.